In questo villaggio che non c’è più, al massimo puoi imbatterti in qualche rudere. Come quello di una chiesetta divorata da rovi ed erbacce. Per il resto è proprio la vegetazione più rigogliosa che mai a farla da padrona.
Tutt’intorno la vista si perde su un tappeto verde di boschi e distese geometriche di meli, prugne, noccioli, ciliegi e filari di fragole, lamponi, more di cui non si vede la fine. Colture specializzate, certo. Che portano la firma di un’azienda italiana, Rigoni di Asiago, che in questa specie di paradiso terrestre, tra i Balcani che si fondono con i Carpazi, ha trovato l’habitat naturale per produrre materie prime di cui ha bisogno per le sue confetture biologiche.
Di Kalimanitsa è inutile cercare tracce del suo passato. Semplicemente non ce ne sono; e le carte geografiche non ne fanno menzione. Eppure un cenno lo meriterebbe la quercia gigante poco distante dalla Stele dei ricordi, sul cui tronco una mano anonima ha spillato un bigliettino con su scritto l’età presunta di questo sempreverde, meraviglia della natura: 350 anni. E sì che di cose in tre secoli e mezzo deve averne viste. In compenso si sa com’è finita.
È accaduto che a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, l’autorità locale si è resa conto dei problemi provocati dalla costruzione di un invaso artificiale che doveva servire da serbatoio idrico per la zona. Intenzione giusta e meritevole, ma errata nei calcoli pedoclimatici se, a quanto pare, l’opera si è rivelata un colabrodo di capitali e di acqua. Riscontri non ce ne sono, ma è certo che la piccola comunità deve averne sofferto, al punto da dovere trasferirsi altrove, abbandonando dimore e campi. Rimasti a lungo incolti.
Fino a quando nei primi anni 90 arriva la svolta, per merito dell’azienda italiana che, intraviste le opportunità ottimali del territorio, avvia un piano di riconversione agricola. Ovvero, proponendo colture frutticole in assenza di fitofarmaci e pesticidi.
Il progetto funziona, tanto da cambiare il volto di quest’angolo di mondo e farne “il frutteto più grande d’Europa”. Lo dice con cognizione di causa il presidente dell’azienda Andrea Rigoni (nella foto a dx, con Domenico Sancricca e un politico locale, al centro) che di questa esperienza si dice “entusiasta per i risultati aziendali e orgoglioso di essere stato protagonista di uno sviluppo economico basato sull’agricoltura bioecologica”.
Come lo è quella praticata in assenza di fitofarmaci e pesticidi nei 1.400 ettari che Rigoni possiede tra la provincia di Montana e Karabunar nei pressi di Pazardizhik, cittadina del centro-Sud dove c’è il quartier generale della società di Asolo. È qui, infatti, che nel 2004 Rigoni ha rilevato una fatiscente costruzione abbandonata da tempo, per farne uno stabilimento tecnologicamente avanzato nella lavorazione e surgelazione di frutta fresca e semilavorati, prima di essere esportati in Italia per la definitiva trasformazione in marmellate, succhi e polpe di frutta.
L’impianto sorge su una superficie totale di 12mila metri quadrati e impiega un’ottantina di dipendenti fissi (per la parte agricola si arriva anche a punte di 800 stagionali) ed è stato recentemente ampliato. Il che ha elevato la capacità produttiva a 6.600 tonnellate. Per non dire di un particolare padiglione dove sono stoccate a temperature siberiane più di un milione di piantine di fragole che, una volta messe a dimora, si moltiplicheranno in miliardi di rametti destinati a generare il frutto gustoso che tutti conoscono e apprezzano.
Come l’hanno apprezzato i convenuti alla “Festa della fragola” che da 14 anni si celebra ogni fine maggio in una delle tenute della provincia di Montana. Un appuntamento che coinvolge dipendenti e le comunità locali dove Rigoni è presente, ma anche i rappresentanti dell’imprenditoria italiana in Bulgaria, guidati dall’ambasciatore italiano a Sòfia, Stefano Baldi.
In tema di investimenti realizzati finora, “l’intero progetto ha richiesto spese per una trentina di milioni di euro”, dichiara il responsabile delle attività Rigoni in Bulgaria, Domenico Sancricca. Che pure non manca di sottolineare le tante difficoltà riscontrate nella ricerca di una miriade di piccoli proprietari e coltivatori diretti, nonché la paziente azione di convincimento affinché costoro cedessero i propri appezzamenti. Un lavoro certosino, necessario per poter disporre di superfici tali da giustificare l’acquisto e i costi per meccanizzare l’intero processo produttivo. Rendendolo così efficiente ed economicamente competitivo.
L’esito è stato quello che la proprietà si aspettava se, come ha confermato il direttore amministrativo Giacomo Cera nel dare il benvenuto agli ospiti della “Festa”, l’investimento “ha dato, sta dando e riteniamo darà sempre più un contributo importante all’attività e allo sviluppo della nostra azienda”. Il cui bilancio 2017 ha chiuso con un consolidato di 122 milioni di euro, in crescita dell’11% sull’esercizio precedente, con incidenza dell’export al 25% e la conferma della leadership sul mercato nazionale pari al 25% dell’intero settore delle confetture.
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