Vino, mercati difficili? Certo, ma il futuro è già scritto nel passato

Perdersi per ricominciare. È un saggio che non passa mai di moda, e si addice anche per vicende apparentemente stravaganti. Come possono esserlo le discussioni oggi di gran voga sul vino. Beninteso quello  cosiddetto naturale, dealcolato, sostenibile, privo di additivi…, contrapposto al nettare che sarà stato pure caro a Bacco ma che proviene da uve che subiscono inevitabilmente un processo fermentativo. Modo per cui è necessario avvalersi di ricerca e supporti scientifici, come insiste a dire a più riprese uno dei guru dell’enologia mondiale, come Riccardo Cotarella, che lo si può amare ma anche contraddire. Ma questo non cambia l’ordine delle cose.

Qui, però, l’incipit è preso a prestito per allargare il campo di intervento a questioni di mercato, forse meno nobili delle prime ma che ben si conciliano con le logiche della filiera vitivinicola di Enotria. Laddove non sfuggono a vignaioli e vinattieri d’ogni dove, cultori di eccellenze produttive o meno che si esaltano quando tutto va bene (ed è normale); e ci si allarma al primo stadio di influenza, pensando di finire a letto con la febbre da cavallo. Sì da indurre i più fragili a correre ai ripari, depauperando anzitempo ciò che è stato costruito in anni di fatica. Approccio ancorché discutibile, ma non esclusivo del Belpaese.

Lo si deduce da quel che sta accadendo nella terra dei grandi cru bordolesi, nemmeno tanto lontano da casa nostra. È da tempo che sulle rive della Garonne si discute su come risolvere problematiche strutturali di sovrabbondanza produttiva. Ed è di questi giorni la notizia che ha fatto salire il sangue alla testa dei vigneron locali, circa la svendita nella Gdo di partite di quel rosso Aoc a 1,99 euro la bottiglia. Saranno pure promozioni, ma è privo di senso mettere a scaffale vino di quel nome a meno di una bottiglia di acqua minerale. Neanche delle più care.

Troppo vino rimasto invenduto? O dell’affacciarsi di nuovi paesi produttori una volta netti importatori e oggi competitori?

Per certo ci sono meno soldi disponibili nei portafogli delle famiglie. Si aggiungano fatti e misfatti geopolitici, stagioni avverse a causa di cambiamenti climatici, abitudini di consumo stravolte e il dato è tratto. Per non infierire su quella che ha tutta l’aria di essere una errata interpretazione mercantile, e cioè considerare come causa penalizzante la concorrenza di altre tipologie di bevande che, a ben vedere, hanno pure prezzi più cari di un genuino calice di vino.

Allora, è crisi congiunturale o strutturale?, si chiede il DoctorWine, provetto degustatore al secolo Daniele Cernilli, in un suo elzeviro alla vigilia del VinItaly (Verona 14-17 aprile). Risposte non se ne sono ancora lette e sentite in giro. Troppo il rischio di sbagliare. Però si può introdurre ciò che tutti dovrebbe già sapere. Ovvero riprendendo la matassa degli accadimenti andati in scena in questo primo scorcio di decennio, con i mercuriali dapprima in picchiata, scoppio della pandemia sanitaria (2020); quindi stallo e presa di fiato (2021); ripartenza a razzo nell’anno dei record assoluti in acquisti interni ed esportazioni (2022). Salvo finire allarmati nell’ultima frazione, il 2023, che per i più benigno non è stato.

Non lo è stato in chiave di export: l’Osservatorio Uiv rileva che nei cinque paesi maggiori importatori di vino italiano (nell’ordine Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Canada e Giappone) c’è stato un calo tendenziale del 4,4% in quantità e del 7,3% nei valori, pari a 4,45 miliardi di euro. E non lo è stato sul fronte domestico, con la domanda sempre più prossima a 20 che a 25 litri pro-capite del 2019. Per non dire dei 53 di inizio secolo o, peggio ancora, dei mitici cento della prima metà anni Ottanta.

Altri tempi. Ora invece si approssima il VinItaly, tra le fiere più gettonate e per questo palcoscenico ideale da cui potrebbero emergere elementi specifici sullo stato dell’arte del vino, e non solo italiano. Posto che le recenti manifestazioni di Parigi e Dusseldorf non pare abbiano dato indicazioni esaustive sul prosieguo dei mercati.

Un’occasione propizia che ha spinto “TerraNostra” a contattare alcuni operatori, le cui anticipazioni più che dire del futuro, pescano nel passato. Che è un modo intelligente di raccontarsi e far sapere sia quando c’è necessità di una pausa di riflessione, sia quando si fa leva su modelli gestionali e produttivi sicuri e già consolidati. Cioè, modelli che nel corso degli anni hanno portato sviluppo e immagine all’impresa, su cui vale la pena continuare a investire.

Esattamente quel che lascia intendere la scelta della casa vinicola Carpineto di Greve in Chianti di invitare nel proprio stand partner commerciali e collezionisti di vini rari e longevi per una degustazione “fuori dai soliti schemi”. Talché, nelle intenzioni del presidente Antonio Zaccheo, fondatore dell’azienda insieme alla famiglia Sacchet, si coglie il piacere di “fare degustare agli ospiti in modo semplice e diretto vini di vecchie annate della casa – Chianti classico ‘95 e Nobile di Montepulciano ‘97 riserva 5 stelle -, messe per la prima volta a confronto con annate recenti”.

Approccio che fa il paio con l’iniziativa preannunciata da Valneo Livon, presidente dalla Livon di Dolegnano e interessi anche in Toscana e Umbria che, in occasione del sessantesimo di fondazione dell’azienda, ha deciso di organizzare una sorta di banco assaggi e svelare i segreti riposti in bottiglie ‘grandi formati’ e vecchie annate di Braide Alte. Come a dire di un grande bianco ottenuto da grappoli di Chardonnay, Sauvignon, Piccolit e altre uve tipiche del Collio friulano. Un vino che un esperto degustatore del calibro di Marco Sabellico del Gambero Rosso, definisce  “versatile, ricco, strutturato e con potenzialità di maturare per lunghi anni…..”. Insomma un grande prodotto.

E poiché il bianco è la tipologia di vino che in questo contesto storico va per la maggiore, ecco che Antonio e Josè Rallo di Donnafugata, Sicilia, si affidano allo Chardonnay Opera Unica 2018 per reinterpretare un gioiello della loro cantina pensato e voluto nei primi anni Ottanta del ‘900 dal padre Giacomo. Da produrre solo in annate particolari, come lo è stata il 2018 che, nelle parole dei due fratelli sembrava inizialmente pazzerella, ma poi per effetto del cambiamento climatico “siamo riusciti a portare in cantina uve strepitose, per un vino che consideriamo irripetibile”.

Da un siciliano irripetibile a un bianco dal nome antico e tuttavia tutto da scoprire. Si tratta del piemopntese Dherthona da vitigno Timorasso prodotto su un fazzoletto di terra in quel di Tortona. A produrlo in quantità modeste sono una manciata di aziende confluite, e nemmeno tutte, nel Consorzio di tutela Colli Tortonesi. Lo stesso che per farlo conoscere ha promosso di recente un Banco di assaggio chiamando esperti degustatori rimasti, manco a dirlo, estremamente entusiasti. Tanto da definirllo “il bianco che più si avvicina al rosso, dotato di uno straordinario potenziale evolutivo, per questo adatto a lungo invecchiamento”.

E rosso, vero e intenso, è invece il rarissimo, praticamente sconosciuto Uvalino ottenuto da uve dell’omonimo vitigno coltivato su un’areale di appena un ettaro e mezzo, per sole 4mila bottiglie, in capo all’azienda agricola piemontese Cascina le Castlet di Costigliole d’Asti. Nei fatti una esclusiva mondiale di proprietà della famiglia Mariuccia Borio che, piacevolmente emozionata, racconta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. Di uve raccolte molto tardi, fine ottobre, a volte anche novembre, da cui si ottiene un vino di grande spessore e longevo. Per questo accade che per metterlo in commercio si rischia di attendere anche una decina di anni. E tanti altri anni ancora possono passare se capita di dimenticare alcune bottiglie in cantina, senza che il contenuto ne soffra minimamente. “Anzi, è allora – aggiunge la signora Mariuccia – che bere Uvalino esprime tutto il suo potenziale”.

Bianco, rosso e … rosato. Come il “Five Roses” firmato dall’azienda Leone de Castris di Salice Salentino, il primo rosato italiano prodotto e imbottigliato nel 1943 partendo da Negroamaro e Malvasia nera, e non miscelando vini bianco e rosso generici lavorati separatamente. La sua origine è curiosa, di cui ho scritto per la prima volta sulle pagine del Sole e ripreso nel secondo libro “Il Vino in Italia” edito da IlSole24Ore a fine anni 80. Coincide con la presenza a Lecce del generale italo-americano Charles Poletti che, nella veste di Alto commissario per gli approvvigionamenti delle forze Alleate, concordò con il conte Salvatore Leone de Castris la fornitura di un rosato ottenuto, appunto, da Negroamaro e Malvasia di uve prodotte nelle tenute dell’azienda salentina. Un impegno che non è mai venuto meno. E che il figlio e Ad dell’azienda, Piernicola, tiene a dire che “si tratta di uno dei rosati più gettonati a livello internazinale, su cui continuiamo a credere e investire”.

Le analisi di “TerraNostra”

(C-riproduzione riservata)

e-mail: basile.nicola@libero.it;   ndbasile48@gmail.com

  • Stefano Malagoli |

    grazie Nicola, e grazie per la citazione del Consorzio di tutela. Mi auguro di poterti incontrare a Vinitaly anche per invitarti di persona al prossimo banco d’assaggio del Derthona. A presto, Stefano

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