di Giulia Maria Basile
Siamo troppo abituati a pensare all’Europa con i suoi confini e stereotipi ben stabiliti, e crediamo di conoscerla; ci teniamo tutte le nostre amnesie storiche e politiche, a volte ci marciamo pure sopra. Ma qualcuno non ci sta. E con Empire, al teatro Astra di Torino in occasione della 23° edizione del Festival delle Colline Torinesi (1-22 giugno), il regista svizzero Milo Rau porta in scena testimonianze dirette di un continente in perenne trasformazione.
Una rumena, un greco e due siriani (uno curdo e uno arabo) non recitano soltanto ma raccontano la propria esperienza di vita in cinque capitoli: Teoria delle origini, Esilio, Ballata dell’uomo comune, Sul lutto e Ritorno a casa. Ciascuno di loro parla la propria lingua ma, nonostante i sopratitoli in italiano siano utili per i dettagli, il concetto arriverebbe lo stesso. Perché sono attori professionisti, sì, ma sono anche migranti e della migrazione parlano senza sentimentalismi né vittimismo: queste sono storie vere, che possiamo ascoltare dal vivo.
Ci accoglie la facciata di un palazzo colpito dalla guerra, e sono gli attori stessi a girare la struttura e a svelarne una vecchia cucina, semplice e piena di oggetti, in cui condividono i propri ricordi. Parlano con lo sguardo puntato a una telecamera, che proietta l’immagine in bianco e nero su un grande schermo al di sopra delle loro teste; così, all’intimità della cucina si aggiunge quella dei loro volti, di cui possiamo cogliere ogni linea e ogni sfumatura d’espressione. Si alternano nella ripresa e, mentre uno sta al di qua del mezzo, gli altri incrociano i propri racconti di fuga e distanza dalla patria e dalla famiglia.
Ramo Ali porta la propria lingua, il curdo, per la prima volta a teatro dopo molto tempo. Al collo ha una medaglietta raffigurante la Madonna, che da bambino si chiedeva sempre (e a suo rischio) chi fosse. È stato in prigione a Palmira, ha lasciato la Siria per la Germania e, nonostante le botte, durante le prove dello spettacolo è tornato a casa per far visita alla tomba del padre che non ha potuto seppellire.
Rami Khalaf, invece, rievoca la sua carriera di attore televisivo in Siria e le manifestazioni politiche cui ha preso parte nonostante il fratello lo considerasse irrispettoso; non si sono parlati per tre anni, poi il perdono e dopo ancora la sua scomparsa. Rami, che intanto era fuggito a Parigi e lavorava per una radio di opposizione, ne ha cercato notizie tutte le notti. Sullo schermo, passano sotto i nostri occhi alcune foto: sono i volti tumefatti di pochi dei milioni di morti sotto tortura per lotta al regime di Assad. Non è macabro, è reale. Ed è proprio tra questi volti che Rami ha ritrovato suo fratello.
Ebrea di nazionalità rumena è Maia Morgenstern. Cresciuta sotto il comunismo totalitario di Nicolae Ceausescu, ci racconta del nonno deportato ad Auschwitz e della propria esperienza nel cinema. Un cinema per cui ha interpretato spesso ruoli controversi, per lei che era ebrea, come quello di Maria ne La passione di Cristo di Mel Gibson. Ed è proprio nel suo racconto sui figli che svela il suo vero cruccio: essere una buona madre nonostante la distanza.
Della casa del padre, a Salonicco, ha nostalgia Akillas Karazissis. Il vento e i profumi di quella terra se li porta dentro, come la ribellione e l’esuberanza che l’hanno portato a fuggire dalla Grecia dei Colonnelli. Dirompente e viscerale, è lui che poi ci congeda sospirando e guardandoci dritti in faccia: ora inizia la tragedia. E noi cogliamo al volo il senso.
Ultimo capitolo della Trilogia sull’Europa che Rau ha cominciato nel 2014, Empire ci fa uscire dalla nostra pelle. E tra la musicalità degli idiomi che si incontrano, video amatoriali di tombe e macerie, passi recitati della Medea di Euripide e un’ironia inaspettata ma vitale, si riflette su qualcosa che forse a qualcuno non sembra ma ci riguarda da vicino. Chiunque, nessuno escluso.
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