Il Sannio, tra vini e opere d’arte: dal vaso Europa all’ipotetica uva di “Ciro”

 Vai nel Sannio, teatro di cruenti battaglie tra Sanniti e Romani (per tutte le Forche Caudine, 321 a.C), e ti ritrovi nel cuore di Enotria, terra di vini, nonché patria della prima denominazione di cui si ha conoscenza già in epoca greco-romana, il Falerno.

Non ho idea quanti visitatori siano stati di recente nel Sannio, ma posso assicurare che chi c’è stato è facile che ci torni. Per mille+una ragione, a cominciare dallo straordinario “vaso da vino più bello del mondo” dedicato a Europa; oppure l’incontro con “Ciro” e della sua ipotetica uva, di cui dirò dopo.

Il vaso da vino, capolavoro senza tempo dalla classica forma a cratere a figura rossa e decori del ceramografo Assteas di Paestum (IV° secolo a.C.) che rimanda, appunto, alla giovane e bella Europa figlia del re Agenore, rapita dall’onnipotente Zeus che, travestito da toro bianco e la complicità di satiri e baccanti festosi, compie quella che può essere definita la prima fujutina della storia (foto, courtesy of Museo di Archeologia nazionale del Sannio).

Rinvenuto casualmente durante scavi a Sant’Agata de’ Goti nel 1973 e subito contrabbandato con un maialino e qualche spicciolo di lire, il vaso riappare anni dopo al Getty Museum di Malibu, prima di essere restituito definitivamente al legittimo proprietario: l’talia, che ne fa l’emblema più prezioso delle opere esposte al Museo Archeologico nazionale del Sannio a Castello longobardo di Montesarchio (foto), architettura imponente incastonata su un colle tra vigneti di Falanghina e Aglianico ai piedi del monte Taburno.

Non sono le uniche, ma sono queste le cultivar autoctone più tipiche e godibili – con uliveti, frutteti e primizie orticole – del territorio tutt’intorno a Benevento, di per sé museo a cielo aperto per l’entità e fattura di reperti archeologici che spuntano a ogni scavare di terra. Un condensato di valori e fattori materiali che appagano la sete di cultura e il buongusto di visitatori che giungono da ogni dove. Anche per essere a tu per tu con ciò che mi sovviene dire de “l’utopia del passato” (copyright Nikolaus Himmelmann) che, nella fattispecie, non è solo storia e vaso Europa ma anche un minuscolo oggetto-soggetto la cui storia è talmente intrigante da fare scivolare il pensiero a ritroso, alla formazione della crosta terrestre.

Sto dicendo del fossile di cucciolo di dinosauro chiamato Ciro, come il nome del santo tra i più venerati dai napoletani, vissuto 113 milioni di anni fa (era Cretaceo) e rinvenuto a Pietraroja, paesello di un centinaio di famiglie a 800 metri di altitudine tra i monti dell’Appennino Matese. Una scheggia di minerale semicircolare di una quindicina di centimetri, corteggiatissimo dai musei di Paleontologia di mezzo mondo, per via della nitida figura impressa sulla materia, che lascia intravedere persino lo stomaco con i resti dell’ultimo pasto della povera bestia, prima di restare vittima ignara di un tragico sconvolgimento geo-ambientale di proporzioni immane.

Da qui la domanda, impertinente: cosa ha potuto mangiare Ciro, tanti milioni di anni fa? Risposta non c’è. Tuttavia, trovandosi in quella landa di mondo che la scienza ricostruisce come una vasta laguna, poi divenuta terra di Enotria, viene spontaneo fantasticare sulla natura di quei resti di pasto. Azzardando congetture sui semi di vegetali ingurgitati dal rettile, magari anche lontanamente rapportabili a quelli del frutto d’uva, di cui si saprà l’esistenza solo cento e passa milioni dopo. Roba da rivoluzionare da capo a piedi la storia dell’uva e del vino.

Insomma un portento. Ma se la congettura è iperbole strettamente personale e alla scienza si lascia l’ardua risposta, di ben altra e solida fattura è l’attenzione che il Consorzio tutela vini del Sannio dedica alla diffusione, informazione e crescita della vitivinicoltura del suo territorio. Lo fa com’è d’uso comune fare, condividendo l’operato con quello delle professioni tradizionalmente affini, tipo ristorazione, turismo, tempo libero. Ma anche ampliando l’orizzonte ad altri contesti d’impegno museale, artistico, formativo, appunto socioculturali abbondantemente ramificati nel e sul territorio sannitico e regionale.

Apertura che il presidente del Consorzio Libero Rillo sintetizza definendo la vite e il vino “segno unico dell’identità culturale e sociale dell’intera comunità del Sannio”. La stessa identità che trova riscontro anche nel recente progetto ‘Vendemmia turistica’ con cui l’ente consortile, tramite la rete della Sannio Academy, “offre l’opportunità a chiunque voglia fare un’esperienza immersiva nella filiera vitivinicola, di partecipare non da tecnico alle diverse fasi produttive della vite e del vino”.

Insomma, un progetto da condividere con partner e contesti diversi, il cui obiettivo per il direttore del Consorzio Nicola Matarazzo (nella foto a sx con il ginecologo vignaiolo Fortunato Votino, tra i maggiori produttori di Falanghina) è quello di “valorizzare, fare conoscere e diffondere al meglio il vigneto sannita, la tipicità delle nostre uve, la vocazione conservativa del paesaggio allargando il perimetro di riferimento anche al patrimonio culturale e archeologico del nostro territorio”. Realtà dai contorni ben definiti in 10mila ettari di vigna coltivata da ottomila viticoltori, un centinaio di imbottigliatori per un milione e passa di ettolitri, tre denominazioni protette – Aglianico del Taburno Docg, Sannio, Falanghina del Sannio, vino più prodotto con oltre un milione di bottiglie -, una indicazione geografica (Beneventano) e un ventaglio di altre tipologie minori.

Numeri contenuti rispetto ad altri territori nazionali, ma che fanno del Sannio il maggior produttore  regionale, oltre che principale esportatore con trend contabile in crescendo da almeo due decadi. Fenomeno associato al migliorare costante della qualità offerta dovuta a una più accurata selezione viticola, innovazione tecnologica in cantina e investimenti in comunicazione. Nei fatti, un insieme di fattori che hanno dato una scossa salutare alle esportazioni campane, triplicandone i valori da inizio secolo/millennio e raggiungere a dicembre 2022 quota 63,5 milioni di euro (1% del totale export nazionale). Per di più mettendo a segno nell’arco degli ultimi cinque anni l’incremento tra i più dinamici rispetto a diversi altri competitori nazionali (+33%, secondo Nomisma- Wine Monitor).

Ce n’è per essere soddisfatti, ma gli interrogativi sul che fare restano. Non di certo per la vendemmia che va a terminare con un consistente calo produttivo stimato tra 12 e 15%, come tutta l’Italia del resto. Ma perché “il processo di rinnovamento e riqualificazione dell’offerta di vini del Sannio è tutt’altro che finito”, avvertono i responsabili consortili. Consapevoli del fatto che proprio lo stallo vendemmiale deve servire a fare una seria riflessione sulle cose ancora da fare, puntando a nuovi e miglior traguardi.

A suggerirlo è l’analisi che Matarazzo ha fatto incrociando i punti di forza e le debolezze della filiera vitivinicola regionale. Laddove tra i primi c’è la “spiccata considerazione che suscitano sui mercati domestici e internazionali i vini a forte impronta territoriale”. E quelli campani lo sono, eccome. Contando peraltro ben 29 vini Dop e Igp, tra i quali sono relativamente pochi quelli che vantano una visibilità e penetrazione mercantile ottimale. Il che dice molto su quei punti di forza che in mancanza di correttivi rischiano di trasformarsi in debolezze.

Questione importante su cui c’è materia per riflettere. Come suggerisce il presidente Rillo, che dichiara apertamente di avere già avviato colloqui con produttori e organismi sindacali del settore, convinto nel ribadire che “ventinove indicazioni geografiche sono troppe in relazione alla produzione e alla loro modesta notorietà fuori regione”. E tanto basta per intuire che in Campania, nel Sannio è tempo di fare scelte per il futuro. Tutti  consapevoli che per dare vigoria in modo ordinato a una pianta o vigna che sia, è necessario sapere cosa potare e farlo al momento giusto.

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