Il Ripasso? “Preferisco produrre Amarone, Recioto e Valpolicella: sono le vere espressioni del nostro territorio”. Zona classica o generica? “Un falso problema. Certo, la zona definita classica ha terreni ed esposizioni ottimali per produrre uve sane, ma non è la tradizione nè l’avere vigne in una tale area che fa fare grandi vini”.
E ancora: il club delle Famiglie storiche? “Sono amici, mi hanno invitato a parteciparvi, ma mi basta l’essere associato al Consorzio di tutela”. Il VinItaly? “Una grande fiera che ha fatto e fa bene al vino italiano”.
Già, ma perché la sua azienda non ha un suo stand da espositore?
“Non ho mai avuto motivo di averlo”, risponde Romano Dal Forno al cronista che nei giorni di VinItaly va a trovarlo in quella che è la sua casa-ufficio-cantina, trovandolo intento a innaffiare le piante di un ordinatissimo giardino. Oltre, la vista si perde sui filari dei vigneti che vanno verso la collina sopra Illasi. Ed è qui, in un territorio fuori dalla Valpolicella classica, che Dal Forno si approvvigiona di uve che utilizza per fare l’Amarone che tutti, nel mondo, gli riconoscono di fare (nella foto sopra, Romano Dal Forno con i figli Luca, enologo; Michele, commerciale; Marco, agronomo).
In tutto una trentina di ettari, tra proprietà e affitto. Cui vanno a sommarsi altri 22 ettari di terreni vergini acquistati di recente proprio sul fianco della collina. Un investimento impegnativo destinato a raddoppiare entro una manciata di anni il potenziale produttivo dell’azienda, oggi di appena 60mila bottiglie, tra Amarone e Valpolicella superiore.
Ma perché niente VinItaly?
“Non ne ho mai avuto motivo. Tenga presente che – racconta Dal Forno – sin dalla mia prima etichetta del 1987, vendemmia 1983, tutto il prodotto era già destinato a un unico acquirente: l’importatore americano Vias di Jacucci & Pedrolli a cui fui presentato dal mitico Bebi Quintarelli, che mi è stato maestro e al quale mi sono ispirato nella mia attività di vitivinicoltore”.
Un sodalizio esclusivo, quello con gli americani, che è durato per diversi anni, fino al 2014, quando la rete degli importatori ha cominciato a ramificare altrove, mantenendo sempre e ovunque la stessa formula di vendita. Che consiste in una stretta di mano con il partner cliente, il quale ritira il vino prenotato dopo avere saldato l’ordine. Una pratica che non ha riscontri simili in giro e dice molto di cosa si sta parlando, talché trattasi di uno dei vini italiani più gettonati nelle principali aste internazionali, da Christie’s a Sotheby’s.
Le aste però sono un mondo a sé, appartengono a un “secondo mercato”, dove a tirare le fila sono le passioni, i piaceri, i voleri di collezionisti, estimatori e facoltosi acquirenti. Come d’altra parte lasciano intendere certi prezzi di vendite online. È il caso del network Tannico che in questi giorni propone in offerta una magnum di Amarone Lodoletta 2008 a 785 euro.
Proposta da capogiro per chi deve fare di conto a fine mese. Non certo per quanti stimano che quella stessa bottiglia fra dieci o vent’anni potrebbe valere molto ma molto di più. Questo per dire di un prodotto che necessariamente deve avere valenze qualitative intrinseche che, per “nasi” e santoni del buon bere, non siano le solite aggettivazioni di buono, grande, piacevole, fine, elegante, longevo e chi più ne ha ne metta.
Classe 1957, tre figli cum laude e vignaioli come lui, Romano Dal Forno non nasce predestinato, non ha un blasone da sciorinare e non ha diplomi da esibire, essendosi fermato al primo biennio di Perito agrario. Il che non ha impedito al “contadino vignaiolo, figlio e nipote di contadini”, come ama presentarsi, di conquistare traguardi apicali.
Persona tenace e idee chiare, il nostro non ancora vent’enne (a 22 già maritato con Loretta e a 26 con tre figli da allevare) ci mette poco a convincersi sulla strada da intraprendere. “Allora, sul finire degli anni ’70 in Valpolicella – racconta Dal Forno – i piccoli contadini non avevano molta scelta sul che fare delle uve prodotte, se non consegnarle all’enopolio.
“I miei genitori – continua – possedevano un campo veronese (circa sette ettari) tra Illasi e Tregnago ereditato dai nonni Luigi ed Erminia, ma gestito da terze persone. Fu così che dopo avere convinto mio padre Ernesto a liquidare i mezzadri, investii tutto quello che avevamo in un vigneto specializzato, adottando modelli di allevamento intensivo, a basso utilizzo di fitofarmaci e vendemmia verde con rese produttive di 50 quintali di uva per ettaro, quando il disciplinare ne prevede 120”.
Il giovane Dal Forno scopre a sue spese che l’avere investito in campagna non era sufficiente a determinare la svolta che si prefiggeva per cambiare un modello obsoleto e standardizzato di fare vino.
Sicché “quando mi resi conto che la cantina sociale a cui consegnavo l’uva non faceva sufficienti distinzioni di prezzo tra un prodotto sano e ricco di proprietà qualitative da altre di minore qualità, andai su tutte le furie. Fu allora che convinsi i miei a fare la vera rivoluzione: se volevamo fare qualcosa di buono, di diverso dagli altri, il nostro vino dovevamo produrlo direttamente noi”.
Ci voleva quindi una cantina, dei vasi vinari adeguati, tecnologie d’avanguardia e tanta buona volontà. Naturalmente anche tanti soldi, con investimenti che a oggi si aggirano sui trenta milioni di euro. Tanti anche per un’azienda che vende i propri vini a un prezzo medio, al netto di Iva e franco cantina, a 85 euro a bottiglia.
Era appunto il 1987, quando uscì la prima etichetta di Dal Forno. Da allora sono passati poco più di trent’anni, l’azienda è cresciuta e – con i tre figli tutti operativi in azienda e i nuovi terreni acquisiti – ha posto le basi per una nuova fase di sviluppo. Che dovrebbe portarla nel giro di qualche anno alla soglia delle 100mila bottiglie.
Dunque una nuova sfida si profila per questa famiglia di vignaioli della val d’Illasi il cui nome ha la non marginale soddisfazione di essere bandiera tra le più rappresentative ed esclusive dell’enologia italiana nel mondo.
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