I giorni dell’Esame di Stato 2024 sono terminati e per gli studenti di tutta Italia l’attesa dei risultati è finita. Certo, non è mai un bell’aspettare, ma tant’è. Accadeva la stessa cosa anche a chi gli esami di Quinta li ha fatti più di mezzo secolo fa. Curioso, ho chiesto a mia figlia, professoressa e collaboratrice di TerraNostra, di fare il punto sulla propria esperienza in qualità di docente. Ecco il suo racconto. (ndb)
di Giulia Maria Basile
La maturità è giunta al termine e qualche bilancio mi sento di farlo. Sono un’insegnante di Lettere e Latino e il mio è un lavoro fatto con passione.
Con la maggioranza degli studenti solitamente riesco a costruire un buon dialogo e con alcuni di essi, una volta terminato il ciclo di studi, lo stesso si trasforma in un solido rapporto fatto di stima e affetto. È raro ma accade, come accade che anche dopo anni, quando meno te l’aspetti, arrivi una mail di gratitudine che commuove.
Questo lavoro è passione anche nel senso etimologico del termine: passio-onis dal latino pati, soffrire, che spiega perché tutto nell’essere docente sia ambivalente. Gli alunni possono farci ammattire, ma ci mancano quando vediamo i banchi vuoti. Per dirla con Aristofane, non si riesce a stare “né con loro né senza di loro”.
Sappiamo cosa si dice dei docenti: fate tre mesi di ferie, lavorate mezza giornata, il vostro mestiere è una vocazione e c’è sempre qualche spiritoso che rispolvera il detto del “chi non sa fare insegna”. Eppure, avere a che fare con figli altrui e genitori opinionisti richiede doti non del tutto comuni. Convincere del contrario chi vuole credere agli stereotipi si rivela una battaglia persa; basterebbe parlare di questa professione con cognizione di causa e il risultato cambierebbe.
Ciò che davvero conta è trasmettere agli studenti quel senso di fiducia necessario a fare la differenza, a impegnarsi per ottenere dei buoni risultati, a confrontarsi con rispetto, ad accettare un giudizio diverso dal proprio, a non temere di essere criticati e nemmeno di fallire.
Che poi, ciò che desiderano maggiormente questi ragazzi è essere ascoltati. Tant’è che, laddove manca il dialogo in famiglia, capita lo cerchino con noi. Esternano le proprie frustrazioni, l’insofferenza verso un mondo che li trascura pur mettendoli al centro dell’attenzione, la rabbia che cresce perché non si sentono compresi né tantomeno supportati. Come potremmo non capirli, noi che come tutti ci siamo passati, ma che a differenza di altri siamo perennemente immersi nell’adolescenza? Siamo un ponte, uno strumento, l’anello di congiunzione tra due entità che spesso o si ignorano o si tollerano a malapena. Se anche fosse vero che “chi non sa fare insegna”, quantomeno trasmettiamo loro qualcosa come altri non fanno.
Per insegnare al meglio sarà anche necessaria una vocazione, ma è pur sempre un mestiere di primaria importanza e come tale deve essere considerato e rispettato. Quella dei docenti è notoriamente una delle professioni più sottopagate in Italia. Dobbiamo cercare di stare a galla in un sistema disfunzionale, che di volta in volta cambia le regole d’ingaggio, vincolandoci ad acquisire sempre più crediti al fine di sostenere un concorso statale, che poi boccia l’80% dei candidati nonostante l’indubbia preparazione sul campo.
Lo stesso sistema obbliga a destinare quasi due mesi di stipendio ai percorsi di abilitazione, che nell’organizzazione mal si incastrano con il lavoro a tempo pieno che un buon docente (anche supplente) deve sostenere – al pomeriggio deve preparare le lezioni e i materiali per tutte le classi, correggere i compiti, leggere gli elaborati, seguire corsi di aggiornamento, partecipare a consigli di classe, collegi docenti, colloqui genitori.
Personalmente non mi peserebbe neanche il Piano Estate proposto dal ministero dell’Istruzione e del Merito che prevede il prolungamento delle attività scolastiche, purché lo si facesse equiparando le pause durante l’anno alla media europea. Malgrado il sentito dire, in Italia i giorni di lezione programmati sono circa 200, in linea con il resto d’Europa.
D’altronde gran parte dell’educazione e della formazione degli studenti continua a spettare ai docenti. Noi che, preparazione a parte, siamo persone come tutte le altre, non paladini di verità e modelli di perfezione indiscussa, e non intendiamo fare del nostro mestiere una forma di volontariato. A prescindere dal fatto che siamo sempre disponibili a compiere il nostro dovere, nonostante gli eventuali occhi alzati al cielo degli alunni, i commenti fuori luogo, il disinteresse e le perle che ti fanno ridere e gelare al contempo: “il Vittoriale intrinseco”, “l’erezione vulcanica”, “i personaggi cadono nel prepuzio della disperazione”. Ma non mancano dubbi atavici: “il conflitto israelo-palestinese si combatte in Israele o in Palestina?”
Dunque, “né con loro né senza di loro”, ma con un consiglio che a fine esame ho dato ai miei ragazzi: d’ora in poi intraprenderete un nuovo percorso fatto di maggiore libertà e soprattutto responsabilità, che vi renderà le persone che volete essere. Spetta solo a voi dimostrare il vostro talento, ma non abbiate paura di chiedere se non sapete qualcosa. A volte le domande che sembrano stupide sono le più importanti, perché troppo spesso si danno per scontato cose che non lo sono affatto.
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