di Giulia Maria Basile
Shakespeare incontra la Sardegna. E lo fa con Macbettu di Alessandro Serra, che nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi ha entusiasmato un pubblico che gli ha tributato applausi a non finire alle Fonderie Limone di Moncalieri. La delittuosa ascesa al potere di “Macbeth” si trasferisce dalla Scozia medievale in Barbagia e, se la vicenda rimane intatta, si arricchisce di archetipi, rituali, tradizioni e richiami ancestrali di cui la cultura sarda è fucina inesauribile.
Miglior spettacolo 2017 per il Premio Ubu e ANCT-Associazione nazionale Critici del Teatro, Macbettu ha la sua prima originalità nell’utilizzo del logudorese barbaricino (con soprattitoli in italiano) – non dialetto, ma vera e propria lingua riconosciuta dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità. Serra si è avvalso di un meticoloso lavoro di traduzione del testo di Giovanni Carroni, che vi ha inserito anche filastrocche, proverbi e canti della tradizione sarda. Una lingua cruda, dura, aspra che si amalgama con la tragedia dell’uomo che per una profezia ambiziosa cede onestà e umiltà per macchiarsi l’animo e le mani del sangue di parenti, amici e innocenti.
Un cast di soli uomini, come era prassi nel teatro elisabettiano del Seicento e come vuole il costume dei carnevali sardi; è da un reportage fotografico di Serra su questi che risale l’idea dello stesso spettacolo. Uomini mascherati che si radunano e si travestono, inscenando canti e danze dalle reminiscenze dionisiache. Così sono saltate all’occhio le analogie con le figure presenti nel “Macbeth”, prime fra tutte le tre streghe che qui richiamano le janas, fate che la credenza vuole aggirarsi tra le sepolture preistoriche. E che aggiungono alla tragedia una nota grottesca e a tratti esilarante.
Carroni interpreta un fedele Banquo, amico e specchio della coscienza sporca del traditore Macbettu cui Leonardo Capuano dà voce cavernosa e prova esemplare. E la Lady Macbeth di Fulvio Accogli, nelle cui braccia e nella cui spietatezza si rifugia il consorte, trasmette con le sue movenze lente e inquietanti tutta la sua seduzione esente da scrupoli.
Ma meriterebbero menzione tutti gli otto attori, che interpretano vari personaggi con la stessa forza primigenia che scaturisce dai simboli sardi presenti in scena. Dal pane carasau calpestato, il cui scrocchiare a ogni passo riempie la sala, alle pietre ammassate come un piccolo nuraghe a simboleggiare ciascuna un delitto compiuto.
Scelte registiche incisive, quelle di Serra, come anche la sua scenografia povera ed eclettica delle strutture in metallo che fanno prima da fondale e poi da mura e porte del castello, tavoli per il banchetto e infine alberi della foresta in cui si pone fine alla tirannia omicida.
Un’intelligenza scenica che si esprime nei dettagli: gli abiti e i fazzoletti neri in testa, le maschere teriomorfe, il grosso bastone della pioggia che viene fatto girare provocando una cascata di suoni o il costante gioco di luci e ombre – componente dominante, come si conviene all’ambiguità dei personaggi e all’oblio in cui lo stesso Macbettu sprofonda. A questo fanno da indispensabile corredo i movimenti scenici coreografati da Chiara Michelini e l’effetto reso da Marcellino Garau sulle pietre sonore incise da Pinuccio Sciola, altro elemento artigianale sardo.
Suggestioni ed evocazioni che riportano indietro a un teatro arcaico, a una dimensione più antica di Shakespeare, in cui temi universali come brama di potere e violenza, solitudine e inganno, vendetta e superstizione ritrovano la loro valenza primordiale. L’atmosfera è onirica e abissale, l’interpretazione rigorosa e asciutta, la regia impeccabile: è così che Macbettu rinnova la tradizione, perpetua l’universalità del bardo e fa sì che il teatro sorprenda ancora.
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