“Benvenuto Orvieto diVino”. Con tanto di calici tintinnanti per il consueto brindisi augurale a base di vino spumante ottenuto da uve tipiche del territorio. Come si conviene per un evento destinato a divenire seriale che si rifà, nel nome e nella formella celebrativa, a iniziative similari già sperimentate in altre “città del vino” che l’intero Paese annovera nel suo perimetro.
Di originale c’è che i vignaioli dell’Orvieto Doc – una settantina le imprese iscritte al relativo Consorzio di tutela, che triplicano conteggiando anche i conferitori di uve delle due cooperative associate – per presentare, domenica 16, la prima edizione di codesto evento sono ricorsi all’aggettivo sacro. Un richiamo che sfrutta un facile gioco di parole, senza per questo sconfinare nel sacrilego e men che meno lasciarsi andare a un banale slogan commerciale.
Trovata che peraltro non s’addice a una comunità produttiva, la cui denominazione d’origine controllata si estende per lo più sull’intero territorio cittadino e località limitrofe per circa 2.200 ettari vitati. Da cui si genera un giro d’affari interessante, data la produzione stimata mediamente sui 12 milioni di bottiglie di vino, per il 40% destinate al mercato domestico e il 60 per cento esportate in Europa, Nord America ed estremo oriente.
In realtà, è bastato mettere a fuoco l’epicentro della manifestazione – l’imponenza plastica e artistica del Duomo dedicato a Santa Maria Assunta di fronte al quale si resta inevitabilmente ammutoliti, e la straordinarietà del Pozzo di San Patrizio, simbolo di discesa agli inferi e risalita purificatrice – per rileggere con luce appropriata un evento il cui difetto è stato quello di arrivare all’appuntamento con ritardo.
Può capitare, soprattutto in tempi di magra congiuntura o, ancor più, da possibili fraintendimenti tra gli stessi vignaioli, notoriamente gelosi sotto ogni cielo delle proprie autonomie. Fatti e pensieri comunque rimediabili, sapendo di poter contare della millenaria cultura vitivinicola di questa terra che già al tempo degli Etruschi vantava testimonianze di apertura al bello, al buono, al futuro. Tre fattori ancora oggi essenziali per gestire un’idea di successo.
Meglio tardi che mai, dice l’antico adagio. Che a questo punto, più della tempestività è importante consolidare l’integrazione tra mondo del vino e territorio. Poiché, come asserito dal neosindaco della città Roberta Tardani, il successo dell’uno si traduce in più immagine e valore aggiunto per l’intera comunità locale.
Un messaggio di apertura subito metabolizzato dal presidente del Consorzio di tutela Vincenzo Cicci e dall’ideatore dell’evento, l’enologo Riccardo Cotarella. Con il primo che ha parlato di una domanda di Orvieto Doc crescente, soprattutto sui mercati esteri. Il che rende propizio avviare piani di sviluppo che riguardano anche il via libera a nuovi areali destinati alla vite.
Sviluppo che, come ha sottolineato Cotarella, è figlio di un processo qualitativo che parte dalla consapevolezza di avere un potenziale di crescita a disposizione, a patto che si intervenga sulla riduzione delle rese di uva prodotta, come pure aprendo a interventi migliorativi nelle metodiche di allevamento. Tenuto conto anche dei cambiamenti climatici in atto.
Ma anche rivisitazione del ventaglio commerciale, con il lancio di un vino spumante prodotto da uve tipiche dell’Orvieto bianco, in primis le varietà Grechetto e Procanico, gemello del Trebbiano toscano. Le stesse uve utilizzate nelle sperimentazioni già disponibili. Come lo spumante usato per il brindisi inaugurale di Benvenuto Orvieto diVino.
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