È stato archiviato come il VinItaly dei record assoluti, quello tenutosi dal 7 al 10 aprile scorsi a Verona. La definizione trova conforto nei dati diffusi dall’ente organizzatore e relativi a numero di espositori (4.600), superficie (oltre 100mila metri quadri), visitatori (125mila) e buyer (32mila) provenienti da ogni dove.
Una grande festa del vino, che ha visto anche un fuori salone cittadino – VinItaly and the City – che avrebbe calamitato qualcosa come 80-90mila presenze. Ma, come dirò più tardi, anche assurdamente surreale.
Si tratta di numeri importanti che fanno dell’evento veronese, di cui s’è celebrata la 53° edizione, la vetrina più completa e rappresentativa del vino italiano. Un salone, cioè, che in più di mezzo secolo ha dato un contributo significativo nell’affermare con politiche mirate di promozione e marketing l’offerta del made in Italy sui mercati internazionali. Avendo nel contempo adottato a livello domestico, sia pure con poca costanza negli anni, interventi strutturali funzionali al miglioramento della proposta fieristica in sé, rendendola attrattiva al massimo.
Come non dire degli investimenti relativi alla rete logistica che, specie in questa edizione, hanno alleggerito non di poco l’accesso all’impianto espositivo. Cosa che fa a pugni con talune iniziative del fuori salone già citato. Una per tutte: lo scempio andato in scena nel cuore della città scaligera, esattamente in Piazza Dante (o della Signoria) bella di suo ma satura di fumi e puzzo nauseabondo provenienti dalle friggitorie disseminate tutt’intorno all’elegante figura del Sommo Poeta. Il quale, oso pensare, se ne avesse avuto l’opportunità li avrebbe scacciati tutti nel più profondo girone dell’Inferno. Organizzatori compresi.
Tutto questo proprio quando VinItaly, ovvero Veronafiere a guida Maurizio Danese e Giovanni Mantovani, ancorché rimarcare attenzione ai temi della sostenibilità e salvaguardia dell’ambiente, sa di non dovere fare passi falsi anche su aspetti apparentemente lontani dalla sua mission. Sa, cioè, di non dovere perdere il confronto competitivo a 360° con le sue dirette kermesse settoriali di caratura mondiale.
Il riferimento va a VinExpo di Bordeaux e a ProWein di Dusseldorf che hanno visto la luce, la prima, nel 1981 con cadenza biennale e, la seconda, nel 1994 con cadenza biennale successivamente convertita in annuale. Due appuntamenti che evidenziano approcci distinti nell’accoglienza professionale, ma avente con VinItaly il medesimo obiettivo: calamitare l’attenzione di buyer e consumatori ovunque essi siano. Per questo destinati a confrontarsi e smarcarsi reciprocamente in un contesto agguerrito ma di sana competizione.
Ora, poiché le fiere in quanto tali fungono anche da termometro mercantile, va da sé che per avere il polso del settore vino a livello globale è inevitabile catturare i fenomeni predominanti delle medesime manifestazioni. Fenomeni congiunturali che per gli istituti di ricerca sono come il pane e che quest’anno, se lo vorranno, potranno agevolmente disporre, data l’inconsueta opportunità di monitorare quanto appena avvenuto a VinItaly e metterlo a confronto con ciò che è stato il recente ProWein (17-19 marzo) che ha visto la presenza di 6.900 espositori per il 70% esteri, di cui 1.600 francesi e 1.700 italiani e che, per dirla con il presidente di Federvini Sandro Boscaini, “è una fiera che ha tutti gli ingredienti per crescere ancora nei prossimi anni”.
E questo vale anche per ciò che sarà VinExpo, che si accinge a celebrare la 20° edizione (13-16 maggio) con un numero di espositori probabilmente più contenuto di ProWein e forse anche di VinItaly, ma di sicura fede e valenza internazionale per almeno e oltre la metà di essi.
Filosofie e approcci differenti, dunque. Come differenti sono le manifestazioni di interesse che le rappresentanze e le lobby politiche di Germania, Francia e Italia dimostrano di avere con i rispettivi appuntamenti fieristici: nel caso specifico dedicati al vino, ma anche facilmente estendibili ad altre attività produttive. Laddove le cronache relative a ProWein e a VinExpo dicono che tali rappresentanze varcano i cancelli espositivi con il contagocce e senza clamori: non più di due-tre ospiti, lo stretto necessario per l’inaugurazione, come accaduto lo scorso marzo a Dusseldorf con il ministro dell’Agricoltura e il numero uno del Land Renania-Vestfalia. E come è previsto dal protocollo anche per l’imminente appuntamento di Bordeaux.
Protocollo, intendiamoci, che non esclude altre presenze della politica e dell’amministrazione pubblica. Per niente affatto. Solo che potranno farlo in via del tutto riservata. Senza fanfare e tappeti rossi. Come invece accade dalle nostre parti.
Anzi, quest’anno addirittura è stato un susseguirsi frenetico di ospiti, a decine, dai più titolati esponenti delle istituzioni opportunamente invitati per l’inaugurazione – il presidente del Senato, il ministro delle Politiche agricole, il Governatore del Veneto – alle rappresentanze governative e partitiche della maggioranza e dell’opposizione. Una processione di personaggi noti e meno noti che hanno evidentemente avvertito la necessità di essere per e con il popolo del vino. Non solo, ma prodigandosi anche nel dare consigli su come diventare attori sempre più bravi a quanti il mestiere di vignaiolo, di vinificatore, di esportatore lo vivono giorno per giorno sulla propria pelle.
Consigli in politichese, s’intende. Come dire, parlare di vino affinché altro s’intenda. Del tipo: “Sono qui per incontrare i produttori di vino e ringraziarli per ciò che fanno per il Paese”, ben sapendo che siamo alla vigilia di un voto importante per le sorti dell’Europa; ovvero: “il vino, come le persone, ha bisogno di spostarsi e se non si muove l’alta velocità, noi il vino ce lo teniamo fermo in cantina», motivo per cui il Tav è un problema già risolto?
E ancora: se l’export cresce il merito è dei produttori che “recuperano posizioni grazie alla qualità e al miglior rapporto qualità-prezzo”. Ma anche grazie al memorandum Via della Seta vergato da poche settimane, che permetterà al vino italiano di “conquistare il mercato cinese”.
Come?, visto che quel mercato è da tempo immemore per il 60% in mano ai francesi, mentre l’Italia nonostante i molti tentativi fatti da singole imprese e anche da VinItaly, era e resta buon ultima nella classifica dei paesi esportatori di vino in Cina, dopo Australia, Argentina, Cile e persino Spagna.
È così che non avendo ottenuto risposta, e per sfuggire a fumi e miasmi infernali provocati dalle friggitorie ambulanti di Piazza Dante (della Signoria), ho pensato bene di rifugiarmi nell’adiacente Teatro Nuovo, dove l’Ensemble Strumentale del Teatro alla Scala di Milano ha eseguito superbi brani di musica sinfonica, operistica, serenate, suite che hanno regalato al pubblico magiche e rasserenanti note. E fatto dire al committente della serata, il presidente del Comitato Gran Cru d’Italia Valentina Argiolas, che “vino e musica hanno un linguaggio di pace comprensibile a popoli di ogni cultura e origine”.
Un binomio che gli italiani conoscono bene e che ha il merito di spalancare porte e costruire ponti anche in luoghi apparentemente inaccessibili. Che sia questa la strada maestra da seguire per esportare meglio e di più?
.
C-riproduzione riservata)
e-mail: basile.nicola@libero.it; ndbasile48@gmail.com