Nel mondo del vino ci sono aziende che vantano secoli di storia: in Italia se ne contano diverse, con un paio di case blasonate come Frescobaldi e Antinori le cui radici risalgono, rispettivamente, al basso Medio Evo e al tempo della prima Corporazione dei Vinattieri, in epoca rinascimentale.
Accanto a questo gruppetto ce ne sono tante altre che si sono appena affacciate sul mercato, sicché l’esperienza la debbono ancora costruire. In mezzo trovi di tutto. Motivo per cui al cronista, e non solo, capita di imbattersi in realtà che operano nel solco della tradizione, altre che sposano la cultura del biologico e altre ancora che nell’ambito del bio s’inventano una personale interpretazione enologica.
È il caso dell’azienda abruzzese Chiusa Grande di Nocciano, in provincia di Pescara, il cui titolare Franco D’Eusanio si è fatto caposcuola della “vinosophia”, ovvero sostenitore della “filosofia bio”, com’egli tiene a sottolineare. Cosa che nell’ambiente qualcuno è arrivato a definirlo “vinosofo”.
Il D’Eusanio pensiero nasce dopo che il nostro, dottore in Scienze Agrarie, ha accumulato esperienza di consulente vitivinicolo, dopo di che, nel ’94, decide di investire risparmi e fortune di famiglia in un’azienda a conduzione esclusivamente biologica: la Chiusa Grande, appunto. Che oggi conta una sessantina di ettari e una produzione di 450mila bottiglie, per il 70% esportate.
Sulle motivazioni di questa scelta di campo bio, D’Eusanio ha le idee molto chiare. <Non si può decidere di passare all’agricoltura biologica – dice – solo per logiche riconducibili al mercato. Alla base ci dev’essere una solida convinzione e uno stile di vita coerente con la scelta fatta. Questo perché sono convinto che fare agricoltura ricorrendo all’uso esasperato della chimica ci porterà in un vicolo cieco. E poi perché ritengo che si possa fare un buon vino senza essere schiavi del profitto, avendo cura del benessere psicofisico di chi il vino lo beve>.
Chi invece alla bio agricoltura si sta avvicinando gradualmente è la tenuta ilcinese Col D’Orcia del conte Francesco Cinzano. Azienda storica del mitico Brunello di Montalcino, Col D’Orcia (500 ettari di cui 140 a vigneto, 200 a cereali, e il resto a pascolo, orto e silvicoltura) è già da alcuni anni che lavora nel rispetto dei protocolli della coltura biologica: <Lo facciamo a tutto tondo – dice il conte Cinzano -; nel senso che il progetto coinvolge tutto ciò che è presente nella nostra tenuta e, ovviamente, riguarda tanto la filiera vino quanto quelle di altre produzioni. Per esempio, i grani che forniamo con contratto di esclusiva al pastificio Senatore Cappelli>.
Altro caso di interventi innovativi, di diversificazione, comunque di avanguardia è quello dell’Azienda agricola San Salvatore 1988 di Stio, provincia di Salerno, patria della Dieta Mediterranea, così definita negli anni Cinquanta del secolo scorso dal fisiologo statunitense Ancel Keys, che nelle terre del Cilento individuò il modello nutrizionale in assoluto più salubre ed equilibrato per la salute di ogni essere vivente.
A leggere le tappe di avvicinamento a quella che oggi è la tenuta, viene da dire che in apparenza non c’è molto di diverso da mille altre storie di aziende agricole, se non fosse per il credo che ha accompagnato il titolare, Giuseppe Pagano, nel perseguire un suo personale progetto dal finale che si evolve in continuazione.
Una storia, cioè, che comincia come appartenenza a una famiglia di coltivatori agricoli con proprietà sulle falde del Vesuvio, che poi si trasferisce nel Cilento, tra Giungano, Paestum, Pollica. Dove la famiglia Pagano negli anni Sessanta intravede nel turismo un’ottima opportunità di sviluppo.
La scelta si rivelerà vincente, ma per Giuseppe Pagano sta per iniziare un nuovo percorso di imprenditore solista, ricominciando a fare lo stesso mestiere del padre: fare vino, senza per questo abbandonare l’hotelleria.
Ecco allora che acquista degli appezzamenti agricoli che aumentano anno dopo anno, per farci delle vigne: oggi sono 25 ettari coltivati nel rispetto dell’agricoltura biologica e biodinamica, con 200mila bottiglie che vengono collocate in parti uguali tra Campania, resto Italia ed export.
Poiché i tempi del vino sono ben lunghi per arrivare al punto di pareggio e la tenuta è collocata nel cuore del territorio della “Mozzarella di bufala Campana”, Pagano s’inventa anche allevatore dotandosi della miglior specie di capi.
Anche questa una scelta vincente, considerato che <grazie alle bufale e agli introiti del latte, e ora anche alle mozzarelle prodotte e vendute direttamente – racconta a “TerraNostra” Pagano – sono riuscito a sostenere gli onerosi investimenti fatti nella vigna e nella cantina>. Una vigna che produce vini di grande pregio nel rispetto della coltura biologica e biodinamica, di cui un grande rosso Aglianico dedicato a Gillo Dorfles <per l’assidua attenzione che da anni egli dà alla nostra terra, il Cilento>, commenta Pagano.
In agricoltura, come in altri campi di attività, la diversificazione di prodotto o di politiche commerciali non è un’esclusiva a senso unico. Di conseguenza il modello della coltura tradizionale riserva ampie opportunità di scelta e si presta a investimenti di sorta. Come quelli cui si lavora a I Feudi di Romans, azienda vitivinicola di San Canzian d’Isonzo, zona classica della Doc Friuli-Isonzo, che, secondo i “nasi” del Wine Challenge 2015 di Londra, vanta il primato di avere in portafoglio il miglior Pinot grigio europeo.
La notizia di oggi è un’altra: l’azienda di proprietà della famiglia Lorenzon sta lavorando a un ampio progetto riorganizzativo che sfocerà in un ventaglio di proposte innovative destinate alle controparti commerciali italiana ed estera.
Così viene interpretato il lancio di nuove linee di vini a marchio Feudi di Romans “Etichetta bianca” da produrre in esclusiva per le insegne nazionali della Grande distribuzione. Come pure è il caso dell’accordo appena sottoscritto con la catena britannica “Polpo”. Altri dettagli di questi accordi non sono noti, ma una volta a regime il progetto dovrebbe permettere all’azienda friulana di fare un doppio salto: quantitativo in termini di business e qualitativo per l’immagine.
Quel che è certo è che le basi di partenza sono di tutto rispetto: 140 ettari di vigneti (110 di proprietà e resto in affitto), 500mila bottiglie prodotte, in prevalenza vini bianchi autoctoni come la nobiltà del territorio friulano lascia intuire, ma non sono da meno i rossi tipici del luogo, e un export che viaggia intorno al 60 per cento. Per un fatturato di 2,2 milioni di euro.
Cifre che, come si sottolinea in azienda, contemplano una crescita domestica 2015 del 35%, cui segue un più 22% nei primi tre mesi 2016. In linea con l’obiettivo di raddoppiare produzione e fatturato entro il 2020.