Non capita tutti i giorni di partecipare a una #mattanza di #tonno (foto accanto). Anzi, in Italia ormai non se ne fanno quasi più da un pezzo. La causa sta nella carenza fisica di pescato e nell’aggressiva competizione attuata da paesi esteri, in prima fila #Spagna e #Malta, che hanno reso antieconomico alle imprese italiane investire nelle #tonnare a rete fissa.
Non di meno pesa l’attività propositiva attuata da gruppi di #animalisti contrari a un tipo di #caccia e di #pesca dai contorni piuttosto forti. In mezzo i consumatori, a cui il tonno fresco e in scatola piace sempre di più, soprattutto quello dalle carni “rosse”, considerato tra le specie più pregiate.
Piace ai popoli dell’Est asiatico che, avidi consumatori, arrivano nel #Mediterraneo a farne incetta. Piace gli europei, maggiori utilizzatori al mondo del prodotto in scatola. E piace agli #italiani, primi in Europa per quantità totali consumate (oltre 130mila tonnellate l’anno) e secondi per domanda pro-capite (2,2 kg), dopo la Spagna che veleggia oltre i tre chilogrammi.
Il risultato è che la crescente domanda domestica in atto da una ventina d’anni a questa parte viene assicurata da massicce importazioni. Il che è tutto dire per un paese che, causa la penalizzante politica delle “quote” produttive, ha difficoltà nell’ottimizzare i processi di trasformazione industriale, trovando persino più agevole pescare vivi i tonni e rivenderli come tali alla concorrenza estera. Con immaginabile trasferimento di valore aggiunto della fase finale, notoriamente il più sostanzioso della filiera, all’acquirente trasformatore internazionale.
Insomma, un handicap economico bello e buono che nell’ultimo quarto di secolo ha condizionato l’attività di decine di tonnare, che hanno finito per chiudere bottega. Lasciando così libero campo a bandiere internazionali di praticare una pesca al tonno rosso fatta con tecnologie sofisticate, comunque diverse da quella a reti fisse. L’ultima di questo tipo fatta con le classiche “bastarde” – barche senza remi e vele – è stata quella di Favignana, in Sicilia, nel 2007. Da allora nella Penisola sono rimaste funzionanti, a fasi alterne, solo tre tonnare collocate nel mare di #Carloforte (a sx le falesie) sull’isola di San Pietro, a Sud-Ovest della #Sardegna.
È in quest’angolo estremo e incantevole della Penisola che guarda verso la Spagna, dove chilometri di falesie si inabissano nel mare cristallino dai colori che cangiano dal turchese al blu notte, che nei giorni a cavallo tra maggio e giugno ho potuto assistere a quella che è stata la prima, e forse ultima, mattanza italiana dell’intera stagione, che solitamente dura da aprile a giugno.
L’occasione è stata l’edizione di “Giro Tonno 2015” organizzata dal Comune di Carloforte (6mila abitanti) che da tempo immemore fonda la propria economia sulla pesca del tonno. L’evento combina la cultura dell’ospitalità e dello spettacolo alle risorse cibarie e, di fatto, inaugura la stagione estiva. Grazie alla quale si riesce a dare continuità economica a un territorio – Carbonia-Iglesias – che negli ultimi anni ha visto andare in malora grandi poli industriali, vere a proprie cattedrali nel deserto e per di più a grave condizionamento ambientale.
All’appuntamento hanno partecipato numerosi maestri di cucina italiani e stranieri, alcuni anche stellati, che si sono sfidati nella preparazioni di proprie specialità, con tanto di classifica finale che ha visto primeggiare i cuochi giapponesi capeggiati da Yoshinobu Kurio (a sx nella foto accanto) del ristorante Yoshi di Milano e che hanno fatto la gioia dei locali e di migliaia di turisti giunti per l’occasione.
È qui, dicevo, che domenica scorsa ho assistito insieme a centinaia di altri curiosi, giunti con scafi galleggianti di ogni misura e genere, all’antico rito della mattanza. Un rito che per qualcuno è fonte di reddito, per altri è una festa, per altri ancora è un’atrocità verso gli animali. Un rito che nella fase finale comincia quando il “rais”, il capo della ciurma, dà l’ordine di tirare su le reti, sicché le “bastarde” tendono ad avvicinarsi tra loro, restringendo sempre più gli spazi vitali delle bestie senza più via di scampo. È a questo punto che l’acqua si colora del sangue dei tonni arpionati, poi issati a bordo e trasportati al vicino stabilimento La Punta di Carloforte, dove abili mani provvedono a eviscerare, pesare e avviare le carcasse ai successivi passaggi della lavorazione.
Scene dalle tinte forti, appunto. Che, piaccia o no, rimandano alla perenne lotta dell’uomo che, per sopravvivere, non si fa scrupoli sui mezzi di conquista. Nella fattispecie, l’uso di reti a maglie fin troppo strette che, a mio modesto parere, l’autorità internazionale competente dovrebbe intervenire facendole allargare a misura più consona, in modo da evitare che nella “camera della morte” finiscano imbrigliati tonnetti di piccole dimensioni. Che, lasciati liberi, assicurerebbero quantomeno il ripopolamento di una specie a rischio estinzione.
Non è un caso se lo stesso procuratore della #CarloforteTonnare, Giuliano Greco, dice a malincuore che quest’anno a Carloforte <si e no si arriverà a lavorare 4 o 5 tonnellate di pescato. Vale a dire la metà della produzione fatta appena un anno fa, e molto meno di quella degli anni precedenti ancora>. Un grido d’allarme? <Lo chiami come vuole – risponde sconsolato Greco -. Io dico solo che di questo passo, con la mancanza di tutele contro pratiche sleali, non so per quanto tempo ancora si potrà continuare a tenere in attività le nostre tonnare>.
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