Si è chiuso con un notevole successo di pubblico e di critica il breve ma intenso ciclo di rappresentazioni de “Il Mercante di Venezia” di William Shakespeare, messo in scena nella settimana a cavallo di luglio e agosto a Venezia e poi proseguito con due tappe speciali a Bassano e Padova. L’adattamento dell’opera, a cura del poeta e professore di Drammaturgia alla Boston University Walter Valeri e la regia dell’americana Karin Coonrod, andrà in cartellone nella prossima stagione teatrale a New York. La puntata di chiusura, a Padova, si tenuta nel carcere Due Palazzi. Qui di seguito le impressioni di Giulia Maria Basile che ha seguito la messa in scena dell’opera per “TerraNostra”.
di Giulia Maria Basile
Toccante. Un solo e delicato aggettivo per dire di come gli ospiti del carcere Due Palazzi di Padova hanno risposto alla rappresentazione de The Merchant in Venice, adattamento dell’opera di William Shakespeare messo in scena tra fine luglio e inizio agosto a Venezia, Bassano (in occasione dell’OperaEstate Festival) e, appunto, Padova. Un unico aggettivo contenente però dieci-cento-mille altri, tanti quanti potevano essere gli spettatori dell’appuntamento patavino, speciale solo per il luogo dell’evento.
Ci voleva una doppia ricorrenza perché si pensasse di portare Il Mercante direttamente nel Ghetto ebraico della città lagunare (foto a fianco), che fa da sfondo alla vicenda. Un omaggio firmato dall’Università Ca’ Foscari e dalla Compagnia de’ Colombari che, per i 500 anni dalla fondazione del Ghetto e i 400 anni dalla morte del drammaturgo inglese, hanno messo in scena una versione multilinguistica della dark comedy shakesperiana più rappresentata al mondo.
Con la drammaturgia dal poeta Walter Valeri e la regia dell’americana Karin Coonrod si è potuto assistere a un Mercante in cui è prevalsa la fluidità di genere e le molteplici identità, esplicitate non soltanto attraverso uno Shylock interpretato da cinque attori differenti per origine e recitazione, ma anche da rapporti che si intersecano tra loro, evadendo confini e sfumandosi di volta in volta.
Un cast che ha unito tradizioni, lingue e culture differenti in tutte le sue componenti – dalla regia agli attori provenienti da Italia, Australia, Francia, India, Israele e Stati Uniti d’America -, alimentando un confronto dialettico di idee e azioni per scoprirsi solidali di fronte a domande e a valori universali su cui l’opera shakespeariana fa riflettere.
Ben sedici gli attori sulla scena, tra cui Stefano Scherini (Antonio), Jenni Lea Jones (Shylock/Duke), Linda Powell (Porzia/Balthazar), Ned Eisenberg (Shylock/Tubal) e Sorab Wadia (Shylock/Graziano): si sono fatti strada nei meandri di un testo dalle ampie sfumature, forse uno dei più complessi di Shakespeare e del teatro elisabettiano in genere. Ma ne è valsa la pena, visto come sono andate le rappresentazioni da tutto esaurito e la speciale edizione dello spettacolo nel carcere di Padova, dove più che altrove si sentiva il peso del tema della giustizia e della comprensione del diverso.
E poi la visione della regista, una Coonrod battagliera e desiderosa di dare una luce universale alla tragedia vissuta da Shylock, pure con tutte le contraddizioni che ha questo personaggio, senza dimenticare che lo stesso spettacolo è per sua natura in continua trasformazione: ogni sera il teatro rivive, e lo fa colorandosi di piccole differenze, intonazioni mai uguali, interpretazioni di volta in volta più profonde. E la straordinaria percezione che tutto si forma anche e grazie agli spettatori.
Ecco allora sprigionarsi in scena una complicità totale tra Porzia e Nerissa (neo femministe?) nell’affrontare il mondo maschile che ne vorrebbe determinare scelte e comportamenti; Bassanio vissuto come strumento per ottenere la libertà dal vincolo paterno; Jessica dapprima figlia in rivolta contro Shylock e, dopo la fuga, in dubbio sul marito Lorenzo e la società per cui ha scelto di tradire il padre; e infine Antonio che personifica il mondo cristiano disegnato da Shakespeare, per cui l’individuo chiede misericordia per sé stesso e giustizia per gli altri (ma sempre a proprio vantaggio).
Se nel prologo affidato al veneziano Sior Lancillotto – interpretato da una donna, in realtà, ma si parlava appunto di fluidità di genere – viene sottolineata l’universalità del sentimento d’amore, ciò che la vicenda in realtà racconta è l’ingiustizia di una società parziale, democratica solo di nome, dove la brutalità del denaro contagia ogni cosa, svilisce i sentimenti e ne mercifica il valore.
E se Shakespeare scrive per Londra proiettando su Venezia e la Coonrod dirige a Venezia proiettando su New York, ecco che quando si spengono le luci tutti ci ritroviamo uniti a riflettere davanti alla parola proiettata sulle facciate delle case del ghetto al termine dello spettacolo, l’unica che conta: misericordia, mercy, rachamim.
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