Di Giulia Maria Basile
Prosegue il viaggio nella mostra Una Tempesta dal Paradiso, allestita fino al 17 giugno alla GAM di Milano. E se nella quotidianità siamo abituati ad assistere ai mutamenti e ai disordini sociali del Medio Oriente con l’occhio distorto di un’informazione filtrata, le opere qui esposte non possono che portare a fare un passo indietro per considerare la Storia da un punto di vista meno parziale.
È il caso del Corrimano di Banca (2010) di Hassan Khan, artista nato a Londra che ha studiato a Il Cairo e che oggi indaga soprattutto le interazioni di cultura e identità tra Occidente e Oriente. L’opera è una riproduzione scultorea del corrimano esterno della Banque Misr, prima Banca Nazionale d’Egitto la cui sede centrale si trova al Cairo.
L’oggetto, isolato e dislocato dal suo contesto abituale, ha in sé un richiamo al ready-made di Marcel Duchamp (di cui l’esempio più celebre resta Fontana, 1917). Ma il suo senso non si esaurisce qui. Sospeso da terra, esso richiama l’ambiguità delle implicazioni socio-economiche cui va incontro l’istituzione; inoltre, il materiale metallico utilizzato – ottone lucidato d’oro – si sposa perfettamente con l’ideale di ricchezza di cui il sistema finanziario d’Occidente forgia la propria immagine. È così che un oggetto dalla funzionalità banale diventa simbolo stesso del potere monetario, di cui la banca è emblema.
Questo però è solo il punto di partenza di una critica alle contraddizioni insite al sistema, che Khan intende denunciare senza mezzi termini. D’altra parte, basta pensare alle ripercussioni globali che il fallimento del colosso della Lehman Brothers ha avuto, tra gli altri, sulla rivoluzione popolare egiziana del 2011. Il fatto è che, se è vero che entro la metà degli anni ‘60 gran parte del Medio Oriente ha effettivamente ottenuto l’indipendenza dall’occupazione delle potenze mondiali, la politica estera e gli affari economico-politici che ne determinano la realtà dimostrano quanto il legame coloniale sia tuttora vigente, nonostante indiretto.
Ma c’è un altro tema, la cui urgenza si fa sempre più impellente: quello della migrazione forzata. Un trauma che viene indagato con lo sguardo delicato quanto penetrante di Gülsün Karamustafa, una delle artiste più riconosciute in Turchia.
Crea la tua storia con il materiale fornito (1997) è una composizione di 30 magliette bianche di cotone ricucite con del filo nero; la taglia è quella del bambino, un chiaro riferimento al dramma che ogni giorno devono affrontare coloro che più di chiunque altro dovrebbero essere protetti dalla precarietà della vita. Lo stato attuale della questione e la datazione dell’opera, 1997, fanno ancora più riflettere su quanto la garanzia di una migrazione sicura sia tragicamente irrisolta. E su quanto libertà e diritti non solo non siano scontati, ma siano in realtà ostacolati.
L’umiltà dell’indumento scelto è simbolica e la concezione dell’opera poetica, ma l’ispirazione è atrocemente realistica.
Ma i bambini sono protagonisti anche di un’altra opera, con un effetto finale a sorpresa. In Transito (2008) è un video di Lida Abdul, girato in un campo aperto della periferia di Kabul. Quello che vediamo è ciò che resta di un aereo militare sovietico abbattuto, un residuato bellico dell’invasione che dal 1979 al 1989 ha devastato l’Afghanistan e da cui molte famiglie (come quella di Abdul) hanno tentato la fuga.
Intorno a quella carcassa abbandonata gioca un gruppo di bambini, che con impegno, dedizione e fantasia cercano di riparare l’aereo con dei batuffoli di cotone. Il loro tentativo è ovviamente vano, e l’ottimismo che infondono si deve confrontare con le conseguenze che le guerre hanno lasciato e imperversano tuttora nel Paese.
L’opera è anche un omaggio al regista armeno Sergei Parajanov, nel cui lavoro spesso compaiono migranti e rifugiati afghani come metafore viventi della distruzione perpetrata da interessi politici ed economici più grandi di loro. Ma la svolta dell’opera di Lida Abdul arriva quando i bambini avvolgono l’aereo con uno spago, si sdraiano per terra e lo incitano a prendere il volo come fosse un aquilone.
Sentiamo le loro voci, vediamo i loro sorrisi e, per quanto tutto sia una tragica allegoria della consapevolezza della difficoltà di ricostruire il Paese, alla fine i bambini riescono a farci vedere quello che vedono loro. Ossia l’idea che, per usare le parole dell’artista, “niente è impossibile quando tutto è perduto”.
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Le esclusive di “TerraNostra” – Dal Guggenheim alla GAM, viaggio nell’arte contemporanea del Medio Oriente (2/3) – Il precedente articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2018. Segue
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