Guggenheim-GAM, viaggio nell’arte contemporanea del Medio Oriente/1 – Progetto e Potere dell’immagine

di Giulia Maria Basile
joana-hadjithomas-e-khalil-joreige-immagini-latenti-diario-di-un-fotografo-177-giorni-di-performance-2015È un viaggio, quello in cui ci si inoltra nella mostra Una Tempesta dal Paradiso che la Galleria d’Arte Moderna di Milano ospita fino al 17 giugno. Un viaggio che, partito dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York, è approdato alla GAM raccontando l’arte contemporanea di un Medio Oriente di cui troppo spesso si ha un’idea confusa o stereotipata. Per avvicinarsi, attraverso la voce dell’arte, a un mondo meno distante di quanto solitamente percepito.
Quella di Milano è l’ottava e ultima tappa di un progetto internazionale, la Guggenheim UBS MAP Global Art Initiative. Promossa con lo scopo di sostenere l’arte contemporanea, la ricerca e la formazione, l’iniziativa si è proposta di raccontare lo scenario artistico attuale da più punti di vista e ha concretizzato l’obiettivo realizzando ben otto mostre in sei città di quattro diversi continenti. Per accogliere Una Tempesta dal Paradiso, allestita da Sara Raza (curatrice Guggenheim, nella foto) e da Paola Zatti e Omar Cucciniello (conservatori della GAM), sono state scelte le eleganti sale di Villa Reale, sede della Galleria dal 1921. Un luogo in cui lo scambio di culture differenti si arricchisce del dialogo tra passato e presente dell’arte.guggenheim-sara-raza-curatrice
Immagini, migrazione, territorio, architettura e storia. Questi sono solo alcuni dei temi fondanti dell’esposizione, che comprende sedici opere di tredici artisti che operano tra i loro paesi d’origine, l’Europa e gli Stati Uniti. Ognuno con mezzi espressivi che vanno dalla fotografia alla scultura, dalle video proiezioni ai lavori su carta, prendendo spunto dalla realtà, dal confronto e dalla riflessione che ne deriva. E aprendo così la porta a una narrazione inedita e a un pensiero critico non predefinito di questa regione che chiamiamo Medio Oriente, ma che accoglie paesi e culture diverse che si estendono dall’Asia occidentale all’Africa settentrionale.
Il titolo della mostra trae ispirazione da But a Storm is Blowing from Paradise, l’opera dell’iraniano Rokni Haerizadeh (2014 – foto accanto): una serie di stampe tratte da immagini circolanti su web e notiziari televisivi, sul cui soggetto interviene la mano dell’artista con tocchi di gesso, acquarello e inchiostro. Con ironia e spirito di denuncia Haerizadeh trasfigura, dipinge, aggiunge elementi simbolici che si inseriscono nell’azione della fotografia. Scene oniriche e surreali in mare aperto, oppure una manifestazione pubblica in cui appaiono ibridi dal corpo umano e teste animali e gli assembramenti di una rivolta politica che si trasformano in una violenta esplosione di colori brillanti.rokni-haerizadeh-but-a-storm-is-blowing-from-paradise-2014-2map_mena_rokni_haerizadeh_2015-89
Non si può non pensare alla Primavera araba che ha avuto inizio proprio in Iran nel 2009 e all’impatto che quei moti possono aver avuto sulla fantasia di questo artista nativo di Teheran. Ma, soprattutto, non si può non riflettere sull’umorismo pungente con cui prende immagini che possono essere riviste su Internet sempre uguali a se stesse, offrendole con una leggibilità inconsueta.
Mescolando elementi della tradizione fiabesca persiana, richiami di politica contemporanea, pietre miliari della letteratura (primo fra tutti La fattoria degli animali di George Orwell, 1945), e una sferzante frecciata al sistema inaffidabile e fuorviante dell’informazione di massa. Inoltre, il fatto che il titolo della serie sia, a sua volta, la citazione di un celebre passo della descrizione che Walter Benjamin fece della stampa Angelus Novus (1920) di Paul Klee, dona all’opera un ulteriore tratto caratterizzante di critica malinconica ma consapevole.
Sul potere evocativo e la messa in discussione dell’immagine si esprimono anche Joana Hadjithomas e Khalil Joreige con l’installazione Immagini Latenti, Diario di un fotografo, 177 giorni di performance (2015 – Foto in apertura). Impressiona vedere su una parete 354 copie di un libro, poste su 177 mensole di metallo; a lato, un video correda l’opera. Si tratta di un’ipotetica biografia di un fotografo immaginario di nome Abdallah Farah, che nel tempo raccoglie e riporta gli effetti della lunga guerra civile libanese (1975-1990). Ma lo fa non attraverso le foto, bensì con la descrizione delle foto a parole. Entrambi originari di Beirut, i due artisti uniscono l’esperienza personale con l’intento documentaristico, per indagare la veridicità e il limite della trasmissione visiva di un traumatico cambiamento sociale e politico che ha sconvolto il Paese dei cedri.
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