Al calar del sole sulla banchina del porticciolo una piccola e variegata folla attende i pescherecci che, sulla via del ritorno per Mazara del Vallo, fanno una breve sosta a Pantelleria: il tempo necessario per fare delle consegne di pescato a ristoratori e negozianti dell’isola. Non mancano i curiosi, e i più sperano in un buon acquisto per la cena ormai prossima.
La scena si ripeterebbe tutti i santi giorni, se non fosse che a volte il vento di Tramontana è tale da sconsigliare l’approdo a qualsiasi natante. In questo caso, per gli ospiti in attesa non resta che ammirare i cavalloni che vanno a picchiare duro sui frangiflutti in pietra lavica: uno spettacolo della natura, da guardare da debita distanza.
Come fa Egidio, un gioviale signore avanti con gli anni che con cifra romantica si lascia andare ai ricordi. E dice: <Il vento la fa da padrone su quest’isola di terra: può piacere o no, ma se ci s’innamora è per sempre>. Dev’essere stato così per lui e sua moglie Marina, tanto da avere messo su casa non lontano dalla Montagna Grande.
Il luogo è lo stesso che alcune settimane fa è stato gravemente ferito da un incendio che ha bruciato 700 e più ettari tra macchia mediterranea e coltivazioni agricole. Un atto doloso che ha mortificato la natura e avvilito i turisti, già numerosi al sole e al vento di metà giugno.
<E che mai sarà un po’ di vento: è fastidioso quando porta via tende e accappatoi, ma è piacevole quando ha la forza della brezza che attenua la calura del solleone>, commentano Franca e Michele, simpatica coppia vicina di dammuso, mentre si avviano per il primo bagno della stagione nella caletta appena sotto Scàuri.
L’incendio non ha fiaccato la resistenza dei locali che, dopo averlo spento, hanno sollecitato le istituzioni a prendere provvedimenti già reclamati. Invito che questa volta non è caduto nel vuoto, visto che Regione Sicilia e Governo nazionale hanno rispolverato una proposta datata e deliberato l’istituzione del Parco nazionale di Pantelleria (nella foto a fianco: ciò che resta della macchia mediterranea data alle fiamme).
Al che l’amministrazione pantesca,guidata dal sindaco Salvatore Gino Gabriele, senza indugiare oltre è passata ai fatti, indicando alcuni progetti su cui far convergere i primi interventi (si veda articolo pubblicato il 26 giugno 2016).
L’alberello della vite
In testa alle priorità, il ripristino dei terrazzamenti ammalorati, stimati in circa 150 chilometri di siepi in pietra a secco. L’intervento mira alla salvaguardia di un antico manufatto della cultura agricola nazionale, che a Pantelleria è un tutt’uno con la coltivazione della “vite ad alberello” riconosciuto quale “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco.
La particolarità di questa coltivazione sta nell’essere ogni singola barbatella incavata in un piccolo fossato, tale da permettere alle radici di andare in profondità alla ricerca di acqua, mentre la parte fogliare viene potata in modo da averla il più possibile radente al suolo. Ciò fatto, l’alberello riesce a schivare l’insistenza del vento, che a lungo lo farebbe annichilire. Dico della vite, ma il discorso è estendibile tal quale agli ulivi e ad altre piantagioni che la mano dell’uomo ha nel tempo addomesticato.
Questo modello di coltura <è l’unica possibile sulla nostra isola>, spiega il vignaiolo Fabrizio Basile (nessuna parentela con il cronista) con cantina a Bukkuram. Costui, dopo qualche esperienza di lavoro <nel continente> – com’egli cita riferendosi allo Stivale -, è tornato a casa e, con la compagna Simona, si è messo a coltivare vigne autoctone e alloctone. Tempo ed esperienza acquisita lo hanno però convinto che il vitigno che risponde meglio è quello tipico del luogo: il Moscato di Alessandria (o di Pantelleria) dalle cui uve, mature e fatte appassire su teli al sole, si ricava il prezioso passito di Zibibbo.
In dieci anni di attività il nostro è riuscito a mettere insieme sei ettari di vigneto, con l’intera produzione (35mila bottiglie) venduta sull’isola. Non solo, ma una buona metà finisce direttamente agli ospiti che fanno sosta in cantina per una degustazione. Un rituale che molti turisti compiono durante il soggiorno sull’isola, visitando aziende e facendo provviste di prodotti panteschi come i capperi. Altra tipicità che è possibile acquistare andando direttamente alla locale Cooperativa produttori, dove un loquace funzionario, Giambattista Bonomo, ti offre anche del materiale che spiega tutto ciò che c’è da sapere di questo gustoso prodotto della terra che ben si addice per un’infinità di pietanze.
In tutti i casi, le visite è meglio concordarle in anticipo. <Lo scorso anno – riferisce Baldo Palermo, responsabile della comunicazione di Donnafugata della famiglia Rallo, con sede a Marsala – nella tenuta di Kamma abbiamo avuto più di 16mila visitatori. Lascio a voi immaginare l’importanza di essere preparati nel ricevere tanta gente, dando loro adeguata e corretta informazione di quello che facciamo e come lo facciamo>.
Il giardino pantesco
Uno dei motivi di tanta attrazione è la presenza, all’interno della tenuta, di un bell’esempio di “giardino pantesco”. Trattasi di edifici a pianta circolare dai muri di pietra a secco spessi anche tre metri e alti da 5 a sette metri, la cui origine risale a tempi biblici. Al suo interno si trova un secolare e tuttora rigoglioso “albero dell’agrume”, a conferma che le piante opportunamente curate e protette da vento e salsedine possono continuare a fiorire per una infinità di tempo.
Di questi giardini su tutta l’isola se ne contano centinaia, ma buona parte di essi sono lasciati all’incuria del tempo e perimetri in disfacimento. Questo di Donnafugata, invece, è stato oggetto di un importante recupero strutturale, terminato il quale i Rallo – al fondatore Giacomo, deceduto di recente, sono succeduti i figli Antonio e José (nella foto, con l’uva Moscato in appassimento) – lo hanno donato al Fai, il Fondo Ambiente italiano, che lo ha posto tra le meraviglie ambientali da salvaguardare <quale esempio di sistema agronomico autosufficiente>.
In realtà è tutto il contesto che rende magica questa parte di territorio. Lo si percepisce man mano che si procede per la strada che da Punta Levante sale verso Kamma quando, dopo l’ennesima curva, ti ritrovi davanti a una sorta di anfiteatro naturale coperto letteralmente da una distesa di verde: sono le vigne di Moscato che si arrampicano fin sotto i contrafforti della montagna. Le cui punte aperte a ventaglio fanno da scudo alle folate che arrivano da Nord. Poi volgi lo sguardo verso Est e, tre-quattrocento metri più in basso, vedi il mare blu all’orizzonte confondersi con i colori del cielo.
Lo Zibibbo “che parla sette lingue”
Paesaggio da cartolina, insomma. Solo che per arrivare a questo livello, oltre alla naturale bellezza paesaggistica, la proprietà ci ha messo del suo, investendo tutto quello che c’era da investire per dare forma a un’impresa agricola che, diversamente, non sarebbe mai potuta arrivare a fare un superbo Zibibbo chiamato Ben Ryé, “figlio del vento”. Un passito naturale al 100 per cento che <da solo parla sette lingue, che sono sette>, esclama entusiasta Elisa, la guida che scarrozza il gruppo per tutta l’isola.
L’estemporanea definizione diverte anche Baldo Palermo, che coglie il segno per dire che <questa di Pantelleria è una viticoltura eroica, con tutto l’impegno che comporta coltivare la vite in montagna>. La puntualizzazione fa riferimento all’isolamento geografico che penalizza non poco l’isola; al sole e al vento che picchiano per buona parte dell’anno; alla carenza di piogge. Tant’è che quando un visitatore chiede <perché non pensare all’irrigazione di soccorso?>, l’anfitrione si mette le mani nei capelli e, sconsolato, fa notare che sull’isola <sono quasi due anni che non piove e non esistono sorgenti di acqua dolce>.
Eppure gli isolani non si arrendono, come dimostra la loro capacità di inventarsi modelli produttivi di cui s’è detto; o ingegnosi sistemi di raccolta della poca acqua piovana di cui sono dotate le abitazioni campestri; o ancora strumenti quali i canneti intrecciati che, posti a protezione dei vigneti, hanno la funzione di frangere il vento e catturare l’umidità che Eolo porta con sé.
Un lavoro improbo, che richiede impegno e un forte attaccamento alla terra dove si è nati. Legame che i giovani panteschi certamente hanno, ma quando le condizioni economiche sono tali da mortificare qualunque iniziativa, ecco che scatta la decisione di andare altrove a studiare, o a cercare fortuna. Con tutto ciò che ne consegue in termini di calo demografico e fuga dalla campagna. Basti dire che dagli anni Cinquanta del secolo scorso a oggi il numero dei residenti è diminuito di oltre tremila unità (da 10.500 a meno di 7.500). Ancora peggio è il consuntivo della superficie vitata, crollata nello stesso periodo da quasi 6mila ad appena 700 ettari iscritti all’albo di produzione. Con l’incoltura che avanza inesorabilmente.
Commenti ulteriori potrebbero sembrare perfino superflui, se non fosse che c’è gente preparata che comunque non si lascia andare alla deriva. Anzi, rilancia. Come fa Antonio D’Aietti, enologo di lungo corso e consigliere nel Consorzio vini Doc di Pantelleria, che chiama a raccolta tutte le espressioni della filiera <a essere uniti, perché solo stando insieme si possono mettere a punto progetti che convincano i giovani a non andare via e investire nella terra>.
Un invito condivisibile, ma le crepe sono evidenti se proprio il Consorzio, finora, non è riuscito a organizzare un incontro tra tutti i produttori (qualche decina), e discutere unitariamente sulle cose da fare e quelle da evitare. Per dare un futuro al passito e ai giovani potenziali vignaioli.
Le inchieste di “TerraNostra”: Pantelleria
2/fine: la precedente puntata è del 23 giugno 2016