Brexit e amen per l’Europa unita? Il finanziere Soros ne è convinto. Lo dà per scontato, come riportato ieri dai giornali. Non è l’unico a pensarla così. Ma a differenza di diversi altri commentatori, quello del financial trader americano era già noto prima che si arrivasse al risultato del referendum che ha sancito il divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea.
Il voto di giovedì 23 giugno ha di fatto cambiato il corso storico dell’Unione e forse anche oltre. Purtroppo del nuovo non si sa ancora nulla e gli incontri programmati a raffica in questi giorni turbolenti sull’onda dell’urgenza e al massimo livello istituzionale, diranno ben poco di ciò che la gente si aspetta di sapere. Come peraltro rimarcato del pressante messaggio lanciato dalle colonne de “Il Sole24Ore” dal direttore Roberto Napoletano: “Europa, svegliati”.
Ma quale Europa: quella che è, o quella che avremmo voluto che fosse?
Non sono né ragiono da politico e la mia visione dei fatti è molto più incline a scrutare quelle che sono le necessità che regolano la vita privata in rapporto con la collettività. Dunque, è a questi fatti che mi attengo. E cosa vedo?
Vedo che non poche delle analisi che ho letto o ascoltato in questo convulso fine settimana, provengono da personaggi più o meno noti che, per il ruolo che occupano nella società, avrebbero dovuto anticipare, dandone comunicazione o auspicandone la realizzazione prima che si arrivasse allo stato in cui siamo.
Invece, eccoli pontificare che è giunto il tempo di fare le cose. E subito. Prima che, da un lato, la speculazione detti la linea al mercato e distrugga ogni forma di risparmio e, dall’altro, il vento populista disintegri del tutto la nobile idea dei padri fondatori dell’Europa unita.
Per gli anni che ho, appartengo alla generazione che questa idea l’ha fatta propria e coltivata sin da giovane età, perseguendo un modello democratico di integrazione culturale, sociale ed economico supportato da logiche socialiste e liberali, rispettose dei propri confini etici e politici.
Gli anni dello studio mi hanno avvicinato molto a quella che allora chiamavamo comunemente “la Comunità”, beneficiando persino di opportunità materiali che, sia pure come “stagista”, mi hanno permesso di essere osservatore diretto e dall’interno dell’allora sistema Cee, arricchendomi di conoscenze e relazioni. Certo, erano tempi più generosi di quanto lo siano quelli che affrontano i giovani di oggi.
Se questo accade, come accade da troppo tempo, le responsabilità non sono delle giovani generazioni e men che meno di quanti fuggono da terre di origine lontane e inospitali, afflitte da guerre fratricide o perché, ancora prima, il colonialismo ha depauperato gran parte delle loro risorse. Senza dare nulla in cambio. Ma questo, a quanto pare, è finito nel dimenticatoio.
Ad ogni modo, nell’uno e nell’altro caso – il disagio che affligge i giovani comunitari e l’immigrazione di extracomunitari – la responsabilità di quanto accade è e resta unicamente di quanti hanno governato una Europa ad occhi chiusi, intenti com’erano a spingere i confini sempre più in là, tralasciando di elaborare un progetto politico che unisse.
Dimentichi di quanto ammoniva uno dei padri fondatore dell’Unione europea, Jean Monnet: “Nous ne coalisons pas des Etats, nous unissons del hommes”.