Il mercato statunitense è per l’Italia il primo paese per import di molti prodotti alimentari (e non). E molto si può fare per continuare a crescere. Ma è anche il paese dove è più evidente e subdolo il fenomeno dei falsi prodotti made in Italy, ovvero di #italiansounding. Un fenomeno miliardario che si è esteso a macchia d’olio in diversi altri paesi (e anche nella stessa Penisola), al punto che stime diverse concordano nel valutare il business del falso ben oltre i 60 miliardi di euro: il doppio del totale export di cibo e bevande made in Italy.
Questo fenomeno del falso oggi si è fatto più complesso e articolato. Dunque, va affrontato con un nuovo approccio e nuovi strumenti, tanto più che come emerge da una ricerca di Mra, Management resource of America, l’industria del falso, vera piage nel fianco per la tavola made in Italy, si sta sdoppiando. Nel senso che una parte mantiene i requisiti di bassa qualità e quindi agisce sulla leva del basso prezzo; un’altra parte si è negli anni elevata in contenuto qualitativo, acquisendo valori intrinseci di forte appeal, capaci di competere con i veri prodotti del made in Italy.
Quando gli italiani a metà del decennio scorso sentirono parlare per la prima volta di #italiansounding, qualcuno ingenuamente pensò si trattasse di un nuovo stile o sound musicale. La confusione ebbe vita breve, grazie a una iniziativa di #ParmAlimentare, società che fa capo a Cdc e Assindustria della città ducale, che ebbe il merito di promuovere una ricerca sul mercato del food & beverage Usa su questo argomento.
A scoperchiare la pentola di questo raggiro sui mercati internazionali fu una ricerca condotta negli Stati Uniti che la stessa Mra eseguì tra il 2005 e il 2006 e che il suo presidente, l’imprenditore Carlo Alberto Bertozzi, presentò in un convegno promosso dalla stessa Cdc della città ducale. Chi scrive ebbe l’onore di moderare quell’incontro.
Oggi, a distanza di otto anni, #ParmAlimentare ha chiesto a Mra un altro e più avanzato monitoraggio della realtà statunitense. Lo studio, presentato oggi nella sede della Cdc, non solo riprende e confronta ciò che nel frattempo ha contribuito a cambiare il consumatore Usa, ma entra nel merito delle opportunità che le imprese italiane piccole, medie o grandi che siano possono ancora cogliere sul ricco mercato nordamericano.
Un mercato che, come ha sintetizzato il presidente della Cdc Andrea Zanlari (nella foto), continua a essere <molto aperto e ricettivo ai prodotti tipici della nostra terra.
<Negli ultimi dieci anni – ha osservato – le imprese della #foodvalley hanno aumentato le proprie esportazioni in Usa del 350 per cento. È certamente un gran bel risultato, ma si può fare ancora di più, a patto che si investa di più in qualità e comunicazione. Oggi il brand Parma è al primo posto nella graduatoria delle conoscenze dei consumatori americani, ma non sono molti di loro a sapere che Parma è una città italiana>. E di opportunità da cogliere e competitività da migliorare ha parlato il presidente di ParmAlimentare e direttore della locale Unione industriali Cesare Azzali (foto sotto).
Lo ha fatto osservando che <se è vero che la nostra Italia è un piccolo paese nel contesto internazionale, è anche vero che ha la capacità di comunicare uno stile e un costume di vita che altri paesi prendono a immagine>. È questo il driver che, secondo Azzali, è opportuno seguire, consapevoli che il mondo è cambiato e sui mercati si sono imposti nuovi protagonisti forti e potenti>. E non di rado prepotenti.
Contro questi nuovi potentati le imprese italiane possono fare ben poco se non si attrezzano in modo acconcio, aprendo alle nuove tecnologie, migliorando i mezzi di trasporto, semplificando i servizi, elevando ulteriormente il contenuto qualitativo dei propri prodotti. E soprattutto <è importante capire il nuovo consumatore che popola il nuovo mercato. Se questo non avviene – ha concluso Azzali – il rischio è di restare emarginati, schiacciati dai competitori più forti>.