Il vino è certamente un prodotto principe del made in Italy, capace di generare interessi e catturare l’attenzione anche di quanti non ne fanno uso. Un prodotto a tutto tondo che non passa inosservato e, anzi, più di altri alimenta nuovi scenari di attività, dibattiti, condivisioni e anche contrapposizioni, giuste o sbagliate che siano.
La querelle sui diritti d’impianto
Si prenda, per esempio, la questione in corso sulla possibilità di autorizzare la libera circolazione nella Penisola dei diritti d’impianto che vignaioli di una regione vogliono disfarsi, perché considerati improduttivi, e loro colleghi di altre regioni che vogliono invece mettere a frutto. Un tema di equilibrio produttivo che la nuova Pac ha lasciato alla libera determinazione di ciascun paese dell’Unione europea.
Ebbene, la Conferenza Stato-Regioni ha per ben tre volte bocciato (a maggioranza risicata) il decreto ministeriale che favorirebbe tale opportunità, nonostante sia noto a tutti che non farlo entro breve tempo si mette a rischio la potenza di fuoco che l’unitarietà del “vigneto Italia” assicura al paese sui mercati mondiali.
Per capirci, si tratta di quasi 50mila ettari – il 7% del vigneto nazionale – che ballano e che l’Italia rischia di perdere dal primo gennaio 2016, qualora lo stallo politico-amministrativo dovesse restare tale ancora per qualche tempo. Un assurdo che il presidente dell’Unione italiana vino Domenico Zonin (foto accanto) ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica e delle stesse autorità competenti.
La questione, manco a dirlo, mi fa venire in mente il monito dell’eroe risorgimentale Massimo d’Azeglio il quale, già un secolo e mezzo fa, sosteneva che <fatta l’Italia, bisogna(sse) fare gli italiani>. Richiamo eccessivo? Non direi, visto che quell’ammonimento ben si presta per dire degli steccati che, qua e là, ancora oggi dividono i vignaioli (e non solo) dai loro stessi luoghi di appartenenza, nonostante tutte le buone intenzioni di quanti, e sono tanti, si affannano nell’affermare l’importanza del legame prodotto-territorio.
Il caso Franciacorta & Franciacorta
Legame che – ancora un esempio – in Franciacorta, territorio vitivinicolo di gran moda, ha le sembianze di un’opera costruita a metà. E lo dico con tutta l’ammirazione per quella terra e per il vino che ivi si produce.
Franciacorta, dunque. Toponimo dell’area geografica che comprende 19 comuni tra Brescia e l’Iseo, ma anche denominazione che identifica il ben noto vino spumeggiante ottenuto da uve Cardonnay e Pinot nero e bianco: una realtà composita che in fatto di vino oggi coinvolge 2.800 ettari di vigneti in produzione, 109 cantine di trasformazione, 14 milioni di bottiglie vendute, di cui l’8% esportate, alimentando circa 250 milioni di euro di fatturato. Non poco per una popolazione di appena 160mila abitanti.
Vino di antica origine, cresciuto di interesse negli ultimi tre decenni, il Franciacorta deve molto della sua notorietà a vignaioli e imprenditori lungimiranti che hanno saputo esaltare le peculiarità valoriali del prodotto, combinandole con l’esclusività territoriale e il rischio d’impresa. Ragione per cui questo campione del made in Italy, il primo vino rifermentato in bottiglia ad avere ottenuto nel 1995 la Docg, è assurto di “prepotenza” nel gotha dell’enologia italiana per qualità espressa. Divenendo, al tempo, anche sinonimo di vino per gente raffinata e dal gusto di vero intenditore. Insomma, tutto quanto s’addice per un prodotto trendy e di successo.
Tutto bene? Non del tutto, visto che il ritorno di mercato – fatidico fattore che condiziona le scelte produttive di qualsiasi attività – premia in modo differente il prodotto Franciacorta, rispetto al territorio della Franciacorta, con uno sbilancio che esalta il primo, mentre il secondo accusa un evidente ritardo.
A testimonialo è una recentissima indagine demoscopica condotta da Astra ricerche su un campione di 1.500 individui tra i 18 e i 70 anni, rappresentativo di 41 milioni di italiani che nella sostanza corrisponde alla popolazione potenzialmente e legalmente atta a consumare vino.
Ebbene, il 95% degli intervistati ha dichiarato di conoscere la denominazione Franciacorta, in quanto vino che soddisfa le aspettative di chi punta ad avere il meglio della qualità. A fronte di questa sorta di plebiscito, si contrappone un modesto 55% di risposte che ammettono di conoscere la Franciacorta in quanto territorio; laddove un altro 30% dice di essere informato dell’esistenza dell’area geografica, ma non sa dove collocarla fisicamente. Va da sé che il restante 15% (non menzionato nella ricerca) è riferito a cittadini che non hanno mai avuto a che fare con quella denominazione e tanto meno con il territorio relativo.
Percentuali che se da un lato evidenziano l’ampio divario tra notorietà del vino e reale conoscenza del territorio (45% degli intervistati), dall’altro inglobano l’ulteriore sviluppo e diffusione del marchio Franciacorta Docg, avanzato di 8 punti rispetto alla stessa indagine compiuta nel 2001. Crescita che soddisfa molto i vignaioli franciacortini, a partire dal presidente del Consorzio di tutela Maurizio Zanella (foto accanto), secondo il quale questi risultati sono frutto dell’impegno profuso dai vignaioli nel migliorare la qualità del prodotto e nell’attivare iniziative (Festival del Franciacorta) e partnership (Camera della Moda) finalizzate a promuovere la denominazione stessa, oltre che favorire ciò che lo stesso Zanella definisce <il connubio vino-territorio>.
Già, proprio quel concetto di territorio che, come s’è visto, non riesce ancora a coagularsi intorno a una identità condivisa da tutta la comunità locale. Dove gli interessi di campanile hanno ancora la meglio, dove l’idea di fare sistema tra paesi confinanti incontra riserve, svela gelosie e blocca l’idea di avere un logo del territorio che rappresenti la Franciacorta unita e determinata nella propria identità. Come, appunto, vorrebbero i produttori che ben sanno di avere un potenziale di ulteriore crescita (<abbiamo a disposizione altri 500 ettari che possono essere vitati, e potremmo da subito arrivare a 16 milioni di bottiglie prodotte e puntare a 18 milioni entro tre anni>, dice Zanella). Che però da qualche parte ci sono cavilli burocratici che ne impediscono la realizzazione.
Qual è il problema?