È nella logica delle cose. Quando si esporta più vino il merito è ascrivibile per filo e per cassa a quelle imprese che firmano tale incremento. Eppure sarebbe ingeneroso non riconoscere che i protagonisti di quel risultato sono più di uno.
Certo, una migliore qualificazione del prodotto, una rete vendita più efficiente e politiche di marketing più incisive sono indispensabili per raggiungere l’obiettivo. Eppure spesso accade che ci si dimentica dell’importanza che iniziative collaterali hanno nel diffondere il verbo bacchico. Messaggio senza il quale le imprese farebbero molta più fatica nel conseguire il risultato atteso.
Si pensi alla funzione delle fiere nel mettere in contatto produttori, buyer e consumatori; alla diffusione di una corretta cultura enoica; agli interventi regolamentati che l’istituzione mette a disposizione delle stesse imprese.
Basti dire dei fondi Ue e di quelli che alimentano il Piano nazionale di sostegno, roba da centinaia di migliaia di euro destinati alla promozione del vino nel mondo. Sostegni impegnativi, dunque. Al punto che il presidente dell’Osservatorio Vino Antonio Rallo non esita a definire il Piano “un unicum nel panorama delle risorse finanziarie nell’ambito della Politica agricola comunitaria”. La cui specificità è di “favorire lo sviluppo del comparto, migliorandone la competitività sui mercati internazionali”.
Nessuno ha ancora quantificato quanto incida questo sostegno alla promozione, sul totale vendite internazionali del vino italiano. Che tradotto in cifre 2016 significa 5,6 miliardi di euro (+4,5% sul 2015), nonostante i volumi abbiano tenuto il passo. Da qui la tesi che si può e si deve fare meglio. Come?
Ecco, il problema è proprio questo: capire come e cosa fare? Consapevoli tutti che non basta solo definire i mercati su cui puntare; non basta dire di accelerare i processi di assegnazione dei fondi; non basta proporre di snellire gli intralci burocratici; non basta aprire i cordoni della spesa a tutti gli aspiranti esportatori.
Forse è il caso di pensare a logiche più selettive e restrittive di quanto non lo siano già oggi. Il che è sempre meglio discutere e azzuffarsi in casa, piuttosto che sostenere la partecipazione a campagne promozionali estere di singole unità produttive da poche migliaia di bottiglie.
Che senso ha, infatti, per queste aziende dire di volere esportare l’italianità quando, per esempio, per accedere al mercato Usa è obbligatorio avere un importatore locale? Interrogativo che più volte ho ascoltato nei corridoi di questo 51° VinItaly, che oggi si avvia a chiudere i battenti con cifre tutte oltre le previsioni. Dove pure sono emerse considerazioni incoraggianti sulle prospettive future per il vino italiano.
Per tutti valga lo studio “Outlook vino 2020” realizzato dall’abbinata Ismea-Veronafiere che ha tracciato uno scenario complessivo su produzione, consumi ed esportazioni a fine decennio, con proiezione di crescita dei valori all’export per l’Italia del 10 per cento. Come dire che se oggi la situazione non è male, domani possiamo fare molto di più.
Un di più a portata di mano. Infatti dai dati dell’Osservatorio vino emerge che tra il 2000 e 2016 il Piano nazionale di sostegno ha permesso la ristrutturazione e riconversione di 235mila ettari di vigneti, pari al 36% dell’attuale superficie viticola nazionale (645.000 ha).
Il risultato è che la Penisola oggi produce in media la stessa quantità di vino del 2001 (52 milioni hl, 50 mln hl nel 2016), nonostante la superficie vitata disponibile sia inferiore di 150.000 ettari rispetto a inizio millennio. E se tanto mi dà tanto, logico pensare che vi siano tuttora strumenti, da cercare, che in futuro possano fare la differenza tra il vino made in Italy e quello prodotto dai altri paesi.
Ma prima bisogna capire cos’è che manca e che va fatto oggi. Prima che lo facciano i concorrenti.