Il colpo d’occhio è assai suggestivo: ambiente di scena che non t’aspetti e per protagonisti 400 studenti animati da forte volontà di apprendere. Per l’occasione, tutti rigorosamente in uniforme bianca e cappello da chef.
Il luogo che non ti aspetti è la chiesa di San Liborio a Colorno di Parma, tornata a risplendere nelle sue forme neoclassiche dopo i danni causati dal terremoto del 2012. I protagonisti, invece, sono gli allievi della Scuola internazionale di cucina italiana dell’istituto Alma, che dalla sua fondazione, nel 2004, ha sede nella Reggia sei-settecentesca della cittadina emiliana.
È pomeriggio, nella chiesa aperta al culto non si celebrano messe, ma lo slargo antistante di quella che in origine era la cappella ducale dei signori del tempo (Farnese, Borbone, Savoia) pullula di gente in coda per entrare.
Sono lì per assistere a quello che sulla carta è un appuntamento laico con evidenti riflessi di cultura materiale: il cibo. In effetti lo è, ma per i protagonisti della narrazione è invece una sorta di iniziazione a un rito carico di pathos ed emozione. Come è giusto che sia per questi studenti neofiti di un istituto che, nella materia, occupa una posizione di vertice a livello mondiale. Considerazione peraltro supportata dal fatto che l’80% degli iscritti alla Scuola di Colorno trova impiego entro una manciata di mesi dal diploma.
L’occasione è l’inaugurazione dell’anno accademico 2016-17 e ad affollare la navata centrale sono appunto i 400 neo allievi (su un totale di 1.200 iscritti nel corso dell’anno) accompagnati dal corpo docente al completo, in testa il rettore e maestro di cucina per antonomasia Gualtiero Marchesi.
Hanno un’età compresa tra 17 e 25 anni e arrivano nel piccolo centro parmigiano da ogni angolo d’Italia e tanti da paesi esteri, in particolare da estremo oriente e Sud America. Per questo Alma è parte attiva nel trovare per tutti loro un accomodamento decoroso nella cerchia cittadina, tenuto conto che i corsi iniziano di primissima mattina e la sveglia spesso coincide con l’alba. Come dire che c’è poco da fare per i pelandroni, come si è portati a fare a quell’età.
Ma dato che questi ragazzi e ragazze arrivano a Colorno motivati, ecco che si dimostrano pronti ad affrontare tutti i sacrifici e gli impegni che il programma di formazione prevede. A cominciare dalle lezioni di cultura generale, passare ai fornelli e pulirli con olio di gomito, sporcarsi le mani in laboratorio, usare i guanti con impeccabile eleganza nel servizio di sala. E via via affiancare maestri di cucina e pasticcieri di rango e quando è il caso, cioè spesso, ricevere gli ospiti offrendo loro quanto di meglio sono stati in grado di preparare. Quando si dice di un lavoro duro che però dà soddisfazione.
Lo sa molto bene il Gualtiero nazionale, il maestro che ha messo le basi alla moderna tavola italiana e allevato schiere di nuovi cuochi, diversi dei quali oggi ai vertici della ristorazione che conta. Lo sa e non esita a dirlo con voce pacata ai giovani allievi che, nel silenzio più assoluto, l’ascoltano rapiti.
“Fare il cuoco – dice Marchesi – è una cosa seria, anzi serissima: richiede impegno, applicazione e non basta conoscere i prodotti nel loro aspetto esteriore, bisogna informarsi sul contenuto e avere padronanza tecnica nel lavorarli”.
Appunto, una cosa seria, anzi serissima. L’esatta negazione della ristorazione resa prodotto di moda, da esaltare e gridare in funzione dello spettacolo. Creando così falsi miti sui quali, una volta spente le luci della ribalta, cala inevitabilmente il sipario.
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