Vino Italia, in 20 anni perse 536mila aziende – Clima e mercato spingono il ‘bianco’ che sfugge ai ‘nasi’

Il bianco muove sul rosso, fa breccia e detta la linea per nuove opportunità. Non è il resoconto all’osso di una partita a Tricche-Trach che tanto intrigava Nicolò Macchiavelli negli anni in cui, esule a l’Albergaccio tra le vigne di Sant’Andrea in Percussina, scriveva il capolavoro di critica politica il Principe.

Non di dadi colorati intendo dire ma di vino, formidabile catalizzatore di interessi, ovvero di opportunità che il vignaiolo italico al pari del Principe dovrebbe tenere a mente nel suo fare impresa, oggi più che mai esposto agli umori dei mercati, a stili di vita che vanno dove il vento vuole, guerre fratricide, pandemie… e, non ultimo, il cambiamento climatico che condiziona le scelte varietali da reimpiantare. Laddove il rinnovamento vitivinicolo si traduce nel gran ritorno di vitigni di uve a bacca bianca, dopo una lunga parentesi di leadership di vini rossi, che restano pur sempre bandiera di un’Italia bacchica senza pari al mondo.

Dell’apertura ai vini bianchi gli osservatori più acuti ne hanno già colto il senso, monitorando l’accelerazione delle scelte fatte da aziende dalla forte impronta di rossi. Un fenomeno che va ben oltre le terre di Enotria, come si intuisce osservando con il caleidoscopio ciò che accade in Francia, dove i vigneron attivi tra le sponde della Gironde e della Garonne, in esubero di rosso Bordeaux, hanno chiesto alle autorità preposte l’autorizzazione a spiantare 15-20mila ettari: dal 12 AL 16% di 120mila ettari oggi a Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit verdot, Malbec … per sostituirli con Viognier, Chardonnay, Sémillon … e persino il gettonatissimo Vermentino.

Fenomeno che nella Penisola si presta a una doppia considerazione tra il molto spiccato – in alcune aree del nordest, dove il successo del Prosecco ha favorito il passaggio da una coltura a base di Merlot a uve Glera – e la débacle che negli ultimi due decenni ha interessato l’intera filiera, come se ne ha di conto la chiusura di 536mila aziende vitivinicole: erano 791mila in attività nel 2000, sono 255mila quelle censite a fine 2020 (fonte Istat-Osservatorio Vino Uiv).

Una contrazione pazzesca che sfiora il 70 per cento, a cui fortunatamente non ha corrisposto altrettanta perdita di superfici coltivate. Infatti, a seguito di acquisizioni, accorpamenti e fusioni buona parte di esse sono confluite nelle mani di altri attori più determinati e presumibilmente meglio organizzati. Sicuramente con proprietà fondiarie mediamente più ampie (attualmente 2,5 ettari di vigneti per azienda, rispetto a 0,9 di inizio secolo) che, in questo tempo di cambiamento climatico, hanno trovato terreno fertile nel rimodulare l’indirizzo produttivo, opzionando più vitigni per vini bianchi che rossi.

Ne dà conferma a TerraNostra una fonte superpartes qual è Eugenio Sartori, direttore generale di Vivai di Rauscedo (Udine) e maggior produttore mondiale di barbatelle che, a tal proposito, dice: “Senza scomodare il successo mondiale del Prosecco, che nelle terre del disciplinare ha reso il vitigno Glera una vera e proprio monocoltura, oggi si constata l’effetto del cambiamento climatico in atto che condiziona parecchio sulle scelte produttive dei vignaioli, con prevalenza di uve a bacca bianca, a maturazione tardiva, marcate proprietà aromatiche e acidità spiccate. Su tutti il Vermentino, Viognier, Grillo, Pecorino, Durella … , a discapito di varietà bianche precoci e vitigni a bacca rossa”.

Visione d’insieme quella di Sartori che trova la sintesi in quanto accade in quel di Bolgheri, terre di pregiati rossi supertuscan dove, al pari di Bordeaux, vi è un importante ritorno, o apertura che dir si voglia, all’originaria coltura di Vermentino, Sauvignon blanc, Viognier. Vale a dire di vitigni che il locale Consorzio di tutela ha provveduto a inserire nel disciplinare di produzione viticola del territorio.

Diversificazione che Tenuta Ornellaia, azienda e marchio bolgherese al top delle credenziali mondali con rossi di indiscussa finezza, da anni porta avanti con sperimentazione di cloni per bianchi rispondenti alle aspettative della casa. Un processo che ha preso consistenza con il recentissimo lancio del Bianco Ornellaia che l’enologo e direttore generale della casa Axel Heinz (nella foto sopra con il cuoco Carlo Cracco) ha presentato in prima assoluta a Milano, quindi a Monaco e Londra. Poche migliaia di bottiglie per un mercato esclusivo, già tutte opzionate.

Numeri diversi invece per il gruppo consortile altoatesino Erste+Neue (450 soci e 4500 ettari di vigneti terrazzati tra il lago di Caldaro e le Alpi del Catenaccio) che negli ultimi anni ha rivoltato come un calzino  il proprio indirizzo produttivo, adeguandolo a ciò che l’ambiente e le condizioni ampelografiche alpine incentiva. Da qui la scelta per un’ampia linea di bianchi Puntay espressione di “totale sostenibilità e prezzi che non vi manderanno in bancarotta”, tiene a dire l’enologo del gruppo Andrea Moser.

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Stessa filosofia produttiva, ma numeri di nicchia si coglie tra i filari di vigna tutt’intorno alla cantina di Piero e Lidia Colosi a Salina, un piccolo gioiello di azienda incastonata a mezza costa nell’incantevole isola siciliana, dove in appezzamenti terrazzati che scendono fino a lambire il Tirreno si coltivano frutti, capperi e uve autoctoni per vini sapidi tipici eoliani che – per dirla con la spontaneità di Piero e Lidia – “sanno di mare e raccontano di luce, vento, sole e colore di una vitivinicoltura semplice ed eroica”.

Quella stessa semplicità che si coglie in Enzo Lorenzon( foto in alto con i figlie Niccolò e Davide) dell’omonima azienda  vitivinicola di San Canzian d’Isonzo, una volta a prevalente produzione di rosso, che con comprensibile orgoglio parla del suo Sontium Feudi di Romans – cuvée a base di Pinot bianco, Friulano, Malvasia e Traminer aromatico -, fresco vincitore della medaglia d’oro The WineHunter award 2022 al Merano WineFestival . Talché di riconoscimento in riconoscimento, come non dire della prima volta che nella Top 100 di Wine Spectator 2022 compaiono ben tre bianchi made in Italy di cantine a conduzione familiare produttrici del Pinot “Grigio e Collio Livio Felluga” (44°), del “Garganega Soave classico Suavia” (58°), del “Falanghina Campania San Salvatore” (80°).

Pochi esempi di un numero decisamente maggiore di cantine che dicono in chiaro della svolta italiana a forte impronta vini bianchi. A cui sento il piacere di aggiungere la meraviglia olfattiva provata degustando il Collio Tramontana Chardonnay in purezza vendemmia 2001 dei Conti Formentini (gruppo Giv), di cui mi è stato difficile trovare una sia pur minima descrizione da parte di “nasi” esperti.

Le analisi di “TerraNostra”

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