È un paese letteralmente spaccato in due, l’Italia dell’olio di oliva 2020: annata in piena attività e stime produttive in forte calo a/a del 30%, a 255mila tonnellate (fonte Ismea-Unaprol). Tra le più scarse che a mala pena pareggia la sola domanda domestica.
Un paese a due facce. Da un lato, il centro nord che avanza con multipli sbalorditivi, da un più 8% del Lazio (12mila t.) al 150% di regioni con dati e valori simbolici per un totale di area non oltre 40mila t. Dall’altro il Sud che, esclusa la Sardegna, sprofonda a 215mila t., zavorrato com’è da indicatori in picchiata di Puglia (-43% a 121mila t.), Calabria (-38% a 32mila t.), Abruzzo (-22 a 7mila t.), Sicilia (-15% a 22mila t.) per restare alle regioni più produttive.
A causare ciò è l’annata cosiddetta di ‘scarica’. Un fenomeno che solitamente colpisce ad anni alterni, che nel 2019 permise di avere a disposizione materia prima per 26 milioni quintali di olive (fonte Confagricoltura) per un totale di 336mila t. di olio, quando l’anno prima ancora si toccò il fondo assoluto con appena 185mila tonnellate.
Una caduta verticale, allora come oggi. Eppure non del tutto compatibile con l’annata di scarica, bensì accentuata dalle conseguenze causate dalla micidiale ‘Xilella fastidiosa’, il batterio che in una manciata d’anni nel solo Salento, il territorio più colpito, ha messo letteralmente a ferro e fuoco qualcosa come centomila ettari piantumati e infettato venti e più milioni di ulivi.
Nei fatti una calamità naturale che ha causato gravi conseguenze socio economiche a livello locale e provocato allarme all’intera filiera olivicola nazionale. Tutti e ovunque consapevoli dell’enorme rischio in agguato al patrimonio olivicolo pugliese e regioni confinanti, giustappunto ritenuto tra i più estesi a livello globale quanto fonte principale di pregiati oli extravergini.
Resta comunque il fatto che tale penuria produttiva non ha interessato unicamente lo Stivale. Nella stessa e non invidiabile situazione si trovano anche altri due importanti paesi Ue produttori, quali sono Grecia (-25%) e Portogallo (-35). Non già la Spagna che, viceversa, si avvia a chiudere una delle annate più ricche di sempre (+27% a sfiorare 1,5 milioni di t.). Un record assoluto, tale da fare stimare un consolidato pari alla metà della produzione mondiale, e un saldo europeo positivo del 5% sul 2019.
Particolare non da poco e, stando alla carta, a solo vantaggio di Madrid che, in queste condizioni, potrà mettere in campo tutta la sua straordinaria capacità di fornitore numero uno di olio di oliva al mondo.
Di più. Potrà anche gestire al meglio i trend mercuriali a livello internazionale, già ora debolucci. A cui si contrappone in condizione non vantaggiosa il Belpaese che, per competere, dovrà sudare molto più delle classiche sette camicie, potendo contare unicamente sulla leva della qualità. Pur sempre frutto di una variegata gamma di oli tipici ed extravergini che il mondo riconosce, premia e, però, sempre più sovente scopiazza.
Ottima chance, magra consolazione. Non solo perché in tempi di crisi e pandemie i prezzi sugli scaffali fanno la differenza. Ma anche perché ci vuole un niente per far salire il sangue alla testa, qualora si dovesse pensare che ancora negli anni Ottanta del secolo scorso il Belpaese era numero uno indiscusso in quanto produttore (anche 600mila tonnellate), consumatore ed esportatore di olio di oliva.
Quel che è accaduto in seguito è storia nota, sicché bastano due frasi due per rinverdire la mente a quanti hanno frettolosamente dimenticato e a quanti, ancora novelli, meritano di sapere sia pure in modo sommario delle storture che capitano in questo benedetto e amato Paese. Storture determinate da lungaggini nelle scelte politiche necessarie per varare piani di riforma, magari votati e poi rimasti a stagionare; e aperture a nuovi investimenti finalizzati a modernizzare la filiera, che la professione avrebbe dovuto tenere in debita considerazione. Non tutti lo hanno fatto per una sordida e generalizzata pigrizia. Chi ci ha creduto, invece, ha vinto.
Sopratutto hanno vinto fuori, a cominciare dal paese maggiore competitore presente sul mercato, la Spagna. Che, difronte ai tentennamenti tricolori, ha avuto buon gioco trovando porte aperte nell’accedere a tutti gli strumenti che l’Unione europea metteva nel frattempo a disposizione del settore. Comprese le risorse domestiche di chi scelleratamente non le ha utilizzate, costretto poi a restituirle al mittente.