80 anni e non par vero!, vien da dire tutte le volte che il festeggiato è persona che si ammira e si vuole bene per uno, cento o mille altri motivi. È il caso di Francesco Guccini, moderno menestrello della musica folk, ottant’anni ieri.
Già prof di Lettere alla Dickinson College di Bologna, quindi scrittore e cantautore di memorabili ballate, canzoni e versi senza tempo amate da intere generazioni, l’artista “molto emiliano e poco tosco” cresciuto a Chianti e Lambrusco ha dunque tagliato questo traguardo con la serenità e la semplicità dei virtuosi e talentuosi: caratteristiche che egli ha sempre dimostrato di possedere, anche quando per un ticket ai suoi concerti bisognava fare ore di fila e salti mortali per evitare di arrivare al botteghino a tempo ormai scaduto.
A festeggiarlo nella sua casa di Pàvana, frazione di Sambuca Pistoiese sul confine appenninico tosco-emiliano, i suoi cari e pochi altri amici, rispettosi di quanto impone il distanziamento sociale al tempo di coronavirus. Che purtroppo resta ancora una brutta bestia da far paura, ma nulla può impedire che si inneggi alla vita alzando al cielo un calice di vino.
Già, il vino, tanto caro a Guccini per quella doppia valenza edonistica e culturale che esprimeva il solo fatto di portare una bottiglia in palcoscenico, rendendo così la bevanda bacchica una sorta di complemento da concerto. Cosa che sorprese molto sentirselo dire, quel giorno di tanti anni fa in cui a chi scrive fu chiesto di anticipargli la nomina ad “Ambasciatore del vino italiano nel mondo 2005” assegnatagli dai reggenti dell’Associazione Vinarius enoteche d’Italia dell’epoca, Giovanni Longo e Gigliola Bozzi Gaviglio.
Un premio simbolico, assegnato al personaggio che più di altri si era distinto nella diffusione della cultura enologica, il cui evento quell’anno si tenne non in una nota e prestigiosa sede per centinaia di invitati, come d’uso a quel tempo. Ma in via del tutto eccezionale a Pàvana tra le mura di casa del premiato, per l’occasione aperta ad amici locali, gatti e un pugno di ospiti giunti da lontano.
Quella stessa casa affacciata sulle fredde acque del torrente Limentra, con lo stesso tavolo di noce annerito dal tempo dove, oso pensare, l’autore e musico di tante e indimenticabili poesie come “Il vecchio e il bambino”, “Auschwitz”, “Dio è morto”, “Don Chisciotte”, “Bologna”, “Vorrei” … ha scritto anche il testo che considero un inno universale alla cultura bacchica.
Un inno al culto del vino “che fa cantare anche l’uomo più saggio” (Omero, nell’Odissea), perché come recita il Talmud “non c’è gioia senza vino”; per questo il poeta Omar Khayyam, indignato per il calice infranto sul sasso, impreca: “…o Signore, a terra hai versato il vino color rosa: scusami la bestemmia, ma sei tu ubriaco, o Signore?”
Un testo a me molto caro che il “molto emiliano e poco tosco” mi ha generosamente donato come prefazione al libro “Profumo di vino” che ho dato alle stampe nel 2002 con i tipi de “Il Sole 24Ore”, e che in questa fausta ricorrenza mi piace riprodurre e offrire ai lettori di “TerraNostra” (ndb).
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L’iniziazione e l’elogio universale a Bacco
di Francesco Guccini
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Molto emiliano e un poco tosco, sono nato e cresciuto fra Chianti e Lambrusco (sembra il brutto verso di una brutta canzone di Sanremo).
I nonno paterni, secondo antiche abitudini, non lesinavano quel mezzo bicchiere di vino ai ragazzi, e la cosa non mi dispiaceva, tanto che in giovanissima età fui colto a gettare sassi nel pozzo di casa; la breve e onesta spiegazione dell’atto fu che, una volta colmata quella riserva d’acqua, difficilmente avrebbero potuto di nuovo servirmene e quel mezzo bicchiere a pasto sarebbe diventato qualcosa di più.
Per il versante di pianura della famiglia, come non versare un bel bicchiere allegro e ricco di spuma di Lambrusco odoroso di viola; dicevano gli antepassati, con grande dirittura morale: “Può, un giovinetto, mandare giù una fetta di zampone con l’acqua, che fra l’altro non fa sangue?!”.
Eccomi dunque iniziato, quasi per volere di antica sapienza montanara e contadina, ai piaceri del vino. Che esaminerò un po’ da lontano, dalle origini: il vino da dove viene, etimologicamente parlando? Romeni e francesi hanno vin, provenzali vins, spagnoli vino, portoghesi vinho. Ma andiamo indietro nel tempo: ecco il latino vinum, parallelo al greco òinos, dorici ed eolici fòinos, umbro osco, falisco vinu, etrusco vin. Allarghiamoci allo slavo vino, al lituano vinas, al prussiano wynam, al gotico wein, all’antico alto tedesco e allo scandinavo viin, irlandese fin, cimbrico guin. C’è già, nel sostantivo, un allegro spumeggiare.
Se però i nomi ci sono, dove le lodi alla bevanda? Ma nella voce stessa, riconducibile, secondo alcuni studiosi fra cui il Mommsen, al sanscrito Vèdico vènas, cioè amabile, delizioso, piacevole. Basta? Aggiungiamo allora che il nome Venere, dea della bellezza e dell’amore, ha la stessa radice, e potrei conchiudere qui il prestigioso cerchio. Per correttezza devo dire che altri, pensando che i semiti precedessero gli indoeuropei nella conoscenza del vino, partono dall’ebraico iin (armeno gini, è evidente) che congiungono a iun, fare effervescenza…
Un destino segnato, il mio, e confermato, più avanti negli anni, nella vocazione umanistica degli studi, che mi mandavano continuamente messaggi. “Non c’è gioia senza vino”, recita il Talmud, e “Il vino mi spinge / il vino folle, che fa cantare anche l’uomo più saggio, /lo fa ridere mollemente e lo costringe a danzare / e tira fuori la parola…” ed è Omero, nell’Odissea.
Ma anche Alceo: “Primavera fiorita/ sento che viene./ Presto, il cratere riempite di vino soave”. Quasi tralascerei il noto “In vino veritas” di Plinio il vecchio, ma ricordiamo anche che “Nunc est bibendum”, come afferma perentorio Orazio, e, in un empito di saggia pace: Quis post vina gravem militiam aut pauperium crepat”, chi dopo il vino parla delle gravose armi o di miserie?, tento di tradurre, ricordando anche il “sapias, vina liques”, che consiglia a Leuconoe invece di stare tanto a domandarsi del futuro o a consultare oroscopi.
Dirà qualcuno: “Comoda, Orazio era un allegro zuzzerellone, per forza che…”. Bene, prendiamo allora l’austero Cicerone, che sì effondeva ire civili contro Catilina (forse, anzi sicuramente astemio, dato il tipo), ma ammetteva anche di non disdegnare “concursare circum tabernas” (andar per osteria) e ordinava “aut bibeat aut abeat” (o bevi o vai a casa). Antichi pagani, qualcuno potrà osservare.
Prendiamo allora l’antico ma non pagano salmista, che proclama: “Vinum bonum laetificat cor hominis” (III,15) e, con un salto di più di mille anni, il mussulmano Omar Khayyam che, in evidente dispregio per il Profeta, scrive nella quartina 211: “M’hai infranto sul sasso il calice del vino, o Signore! La porta della delizia m’hai chiuso in faccia, o Signore! A terra hai versato il vino colore di rosa: scusami la bestemmia, ma sei tu ubriaco, o Signore?”
Chi sono io per respingere tanta saggezza?
Ma eccomi poi nello Studio di Bologna, il più antico del mondo occidentale, crogiolo di etnie e di cultura. Si viene a scoprire che gli studenti avevano il privilegio (mantenuto fino XIV° secolo) di assentarsi dalle lezioni il primo giorno di scuola d’ogni mese “pro potionibus sumendis more solito”, e se qualcuno avesse dubbi sul tipo di pozione si legga questo canto goliardico: “Ave color vini clari, ave sapor sine pari, tua nos inebriari dignemini potentia. Ergo vinum conclaudemus, potatores exultemus, non potantes confundemus in aeterna tristitia. Amen”.
Ecco perché il buon Villon, anche lui studente, scriveva, in forma di preghiera per un amico andato: “… buon bevitore superava tutti, strappargli non potevi il suo boccale; del vino buono non fu sazio mai. Signori delle vigne, non scacciate l’anima buona di Cotart che fu”. Certo, erano studenti gavazzoni, ma che dire dei maestri?
In una vecchia osteria di Bologna, fino a qualche tempo fa, campeggiava un busto di Carducci, che pare fosse di quell’osteria buon frequentatore, e sotto al busto una targa in ottone recitava: “Quando morirò seppellitemi in una vigna, cosicché possa restituire alla terra tutto quello che ho bevuto in vita”. Grande poeta in grande città. A Bologna, nel 1666, furono portate 60mila castellate (carri per vino). Una castellata era di 786 litri; sono più di 47 milioni di litri di vino.
Un anno eccezionale? Forse, ma guadiamo meglio: fra il 1633 e il 1782 ogni anno abbiamo una media di 24 milioni di litri di vino. La popolazione era attorno a 70mila persone, il che fa più di 340 litri a testa, bimbi compresi.
Sono vendemmiatore, amico di vendemmiatori, in città di vendemmiatori. E allora lasciatemi concludere con una quartina del già citato Omar Khayyam, che mi permetto, e non vi offenda la cosa, di tradurre dal persiano antico:
“Bevi vino, ché vita eterna è questa vita mortale,
E questo è tutto quel che hai della tua giovinezza;
Ed ora che c’è vino, e fiori ci sono, e amici lieti d’ebbrezza,
Sii lieto un istante ora, ché questa, questa è la Vita”.
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