Svolazzano di fiore in fiore, vi si posano su per alimentarsi e al tempo stesso impollinano una moltitudine di piante, perpetuando così il patrimonio genetico del mondo intero. In più, elargendo con generosità un nettare che solo loro sanno fare con un lavoro di squadra e maestria, il miele.
Protagoniste di questo miracolo della natura sono le api: insetti apparentemente fastidiosi – chi trascorrendo del tempo di primavera o estate in campagna non è mai stato infastidito e anche punto da una di esse, alzi la mano -, in realtà socialmente ed economicamente funzionali al benessere comune. Se non altro per la loro innata predilezione a coesistere in ambienti salubri e incontaminati, talché laddove queste condizioni sono compromesse dall’uso massiccio di fitofarmaci e insetticida, la loro esistenza è decisamente a rischio. Per questo è necessario proteggerle.
Come pensano di fare i ricercatori dell’Università di Bologna coordinati dal prof Luca Fontanesi che lavorano al progetto Bee-Rer che si avvale di tecniche di analisi del DNA per monitorare il grado di conservazione delle api, della loro tracciabilità e miglioramento qualitativo del miele prodotto. Il progetto finanziato dalla Regione Emilia-Romagna parte dalla considerazione che le api hanno un ruolo fondamentale nel preservare l’equilibrio dei nostri ecosistemi, sottoposti a cambiamenti climatici, all’inquinamento da fitofarmaci e persino alle #contraffazioni di prodotto sui #mercati internazionali.
Di tutto e di più s’è detto e sentito nei giorni a cavallo di mercoledì 20 maggio, dichiarata ‘giornata mondiale delle Api’ dalle Nazioni Unite. Un evento incoraggiante per l’apicoltura in sé, considerata ancora oggi un’attività a metà strada tra professionismo e hobby, per certo meritevole di attenzione da parte di ciascuna delle 196 bandiere del mondo che coralmente producono quasi 2 milioni di tonnellate di miele. Con la Cina che da sola pesa per poco meno della metà, seguita da Europa (21%), Americhe (18), Africa (11) e Oceania (1).
Numeri, ma anche problematiche connesse ai capricci climatici, a loro volta conseguenti all’utilizzo in agricoltura di pesticidi che sono oltremodo critici per l’ambiente e per la vita delle api.
Questioni globali che coinvolgono direttamente il sistema apistico nazionale, forte di diverse decine di migliaia di apicoltori specializzati e una moltitudine di appassionati per un totale di 1,4 milioni di alveari (secondo posto in Europa, dopo la Spagna) il cui ciclo vegetativo e produttivo è da tempo messo a dura prova da avversità di ogni tipo. Tanto che nell’ultimo decennio ha accusato una caduta verticale dei raccolti di miele, letteralmente dimezzati da 12,2mila tonnellate del 2010 a 7,4mila nel 2018 e chiudere il 2019 con appena 6mila tonnellate. A fronte di un consumo medio pari a quattro cinque volte tanto.
Insomma, un disastro che il direttore dell’Osservatorio nazionale miele, Giancarlo Naldi, vorrebbe dimenticare prima possibile, ma non può evitare di raccontare di pregiate varietà di miele di acacia, al centro-nord, e agrumi, al sud, andare letteralmente in fumo. La causa? “Il maltempo – dice – e le pratiche agricole scorrette che fanno uso di prodotti chimici capaci di alterare l’habitat organico delle api, rendendole sterili e addirittura causandone la morte”.
Al che uno si chiede e chiede: ma che razza di futuro sarebbe un mondo senza api?
Se così fosse “non avremo più il miele, alimento ricco di zuccheri naturali, vitamine, minerali ed enzimi ad alto valore nutrizionale che da solo basta e avanza per dare un tocco di dolcezza in più al mondo intero”, risponde Claudio Comaro di Cassacco, Udine, apicoltore da quattro generazioni, con 2.200 alveari in proprio e disponibilità di miele proveniente da oltre 500 apicoltori di tutta Italia. Dunque, un peso massimo della filiera con marchio e rete commerciale ramificata in tutta Europa. E che, di fronte al disastroso 2019, nulla ha potuto impedire che la sua produzione crollasse dell’80 per cento, talché il “ritorno di gestione – dice – ha permesso di coprire a malapena il 30% delle nostre spese sostenute nel corso dell’anno”.
Un colpo micidiale che Comaro (nella foto sopra alle prese con un alveare) attribuisce, appunto, agli eccessi distruttivi del meteo, ma anche “all’uso incontrollato che si fa in agricoltura di prodotti chimici”. Su cui concordano altri apicoltori di regioni diverse. È il caso di Francesco Bellomo di Sortino, Siracusa, produttore di sciami di api per l’impollinazione e dell’astigiano Massimo Carpinteri che, a tal proposito, osservano come la legge nazionale 313/04 vieta esplicitamente che si facciano trattamenti a base di fitofarmaci nel momento della fioritura delle piante.
Un riferimento che Diego Pagani (foto sotto), presidente del consorzio Conapi-Melizia, oltre 600 apicoltori e 100mila alveari, riprende per lamentarsi dell’uso assurdo che si fa in agricoltura di cavalli di Troia. Ossia “prodotti di sintesi che vengono utilizzati in periodi che precedono la fioritura delle piante, ma i cui principi attivi entrano in funzione successivamente, quando la fioritura è in atto”. E ancora di fungicidi a “tossicità elevata, per cui basta utilizzarne poco per dimostrare che l’uso della chimica è quantitativamente in calo in agricoltura. Mentre si tratta di prodotti decisamente più potenti, fino a 7mila volte più dannosi del vecchio DDT”.
Accuse generiche? Non sembra proprio, considerato che la questione del ricorso a pratiche agronomiche nocive è stata oggetto di precisazione da parte del presidente della Commissione agricoltura del Senato Gianpaolo Vallardi. Il quale, in concomitanza con la giornata dedicata alla api, ha ripreso l’annosa questione del composto chimico a base di Neonicotinoidi, un fungicida altamente nocivo alle colture agricole e micidiale per le api che già nel 2008, l’allora ministro dell’Agricoltura Zaia chiese all’Unione europea di mettere alla berlina.
Da allora l’Italia lo ha vietato, ma non per tutti. Tanto è che l’iter procedurale in seno alla Commissione Ue dopo 12 anni è ancora oggetto di discussione e divisioni: nell’ultima votazione a Bruxelles la maggioranza qualificata ha optato per il divieto del composto chimico, ma l’unanimità è ancora un miraggio. All’appuntamento mancano infatti quattro paesi (Danimarca, Romania, Repubblica Ceca e Ungheria) dichiaratamente contrari all’abolizione, e altri otto (Belgio, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) che si lavano le mani, astenendosi.
Dunque, un voto che stride fortemente con le politiche ‘green’ volute dalla nuova presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Di sicuro un voto che lascia di stucco chiunque osservatore, visto che gli stessi uffici comunitari hanno quantificato in 22 miliardi di euro il contributo dato virtualmente dalle api al manenimento del buono stato di salute dell’agricoltura europea.
Per questo, e di fronte allo scempio funesto che ha ridotto la capacità delle api di proliferare, l’esecutivo ha recentemente deciso di correre ai ripari, aumentando dell’11%, a 240 milioni di euro, i fondi per incentivare l’apicoltura europea nel triennio 2020-2022. Come a dire, un buon segnale iniziale che, però, attende la prova dei fatti.