Much ado about nothing. Molto rumore per nulla, farebbe dire il bardo di Stratford-upon-Avon ai suoi allegri compari di taverna dell’epoca, chiamati a interpretare sul palcoscenico storie di vini e dintorni dell’Italia dell’oggi.
Ne colgo il senso, per dire del braccio di ferro in atto tra le regioni Puglia e Sicilia che, sulle opportunità produttive del Primitivo, hanno imbastito un vivace battibecco in remoto, come si usa al tempo di coronavirus, che comunque pone interrogativi. E questo anche e forse solo a causa di possibili distrazioni burocratiche che hanno ingigantito l’animosità delle parti.
Non proprio quanto sta accadendo in contemporanea nei Palazzi che contano, circa l’approvazione delle modifiche alla Ocm-Vino. Dove gli attori, le medesime regioni moltiplicate nel numero, nel mentre difendono a spada tratta i propri interessi, sembrano dimenticare la valenza degli accordi. Solo grazie ai quali è possibile accedere all’uso dei fondi comunitari (qualcosa come 200 milioni di euro) destinati alla promozione del vino italiano sui mercati internazionali.
Ma torniamo alla querelle di apertura, che vede su fronti contrapposti due pezzi da 90 del Mezzogiorno d’Italia che, per capacità produttiva sono campioni mondiali di vini tipici ottenuti da vitigni autoctoni.
Accade che la Giunta della Regione Sicilia con proprio decreto dell’agosto del 2019 ha deliberato in linea di massima la possibilità di impiantare e quindi produrre vino da uve di Primitivo. Vale a dire nobile vitigno di uve a bacca rossa finora non presente in Trinacria, ma coltivato da tempo immemore in Puglia, in particolare nella penisola salentina, dove codesto biotipo trova la sua massima espressione produttiva nella Doc Primitivo di Manduria.
Per capirci, si tratta di realtà importante che ha in dote oltre 4mila ettari di vigneti coltivati da un migliaio di piccoli e medi agricoltori di 18 Comuni tra Brindisi e Taranto, che coinvolge decine di cantine private e cooperative per un totale di 23 milioni di bottiglie vendute in mezzo mondo, tali da generare un giro d’affari franco partenza stimato sui 180 milioni di euro.
Dunque, un vero e proprio tesoro affatto marginale per l’economia locale. Al punto che Mauro Di Maggio, presidente del relativo Consorzio di tutela, nonché direttore generale di Cantine San Marzano, in una dichiarazione a ‘TerraNostra’ definisce il tutto “frutto di decenni di sacrifici dei nostri viticoltori, gente che ha investito nel Primitivo migliorandone qualità, immagine e rafforzando l’identità del vino al territorio”. Motivo per cui “riteniamo più che doveroso continuare a investire nelle potenzialità e opportunità che il Primitivo riserva per il futuro”. A questo punto, a rischio concorrenza.
Questo spiega perché in Puglia, appena si è saputo – inspiegabilmente solo una settimana fa – del disposto regionale siciliano, i responsabili di diversi Consorzi di tutela vini, di rappresentanze agricole, enti e sindacati di categoria regionali hanno condiviso e diffuso una dura nota dal titolo esplicativo – “Basta allo scippo del Primitivo” -, in cui si definisce il provvedimento della Regione Sicilia “un abuso inammissibile e offensivo della nostra storia”, ma anche “pericoloso precedente amministrativo”. Di qui l’impegno a dare “massima attenzione alla vigilanza e alla salvaguardia del patrimonio ampelografico locale, quale elemento distintivo delle produzioni vitivinicole Dop e Igp” della Puglia.
Il tutto con il conforto del senatore della Repubblica Dario Stefàno che, a tutela delle buone ragioni dei vignaioli suoi conterranei, proprio oggi ha depositato una interrogazione parlamentare ad hoc, con la quale mette in evidenza taluni aspetti della legge sulle Doc che, a suo dire, prestano il fianco a speculazioni commerciali, a scapito di vini noti ma scarsamente tutelati.
Insomma, un pugno nello stomaco, che i pugliesi non meritano. Pugno che però a Palermo nessuno s’è accorto nemmeno nelle intenzioni di avere inferto. Come mai? “Per più motivi”, risponde a ‘TerraNostra’ il dirigente dell’assessorato all’Agricoltura, Dario Cartabellotta, che della delicata questione se ne sta occupando dall’inizio. “Intanto – premette – è bene che si sappia che il nostro provvedimento non è di questi giorni, ma risale ad agosto di un anno fa. Si tratta di un atto pubblico noto, com’è noto che il Primitivo lo si coltiva in Puglia ma anche in diverse altre regioni d’Italia. E non da oggi.
“Tuttavia é importante sottolineare – continua Cartabellotta – che la Sicilia non ha autorizzato nessuno a produrre in loco vino Primitivo, bensì ha dato via libera a fare sperimentazione a un singolo produttore che ne ha fatto regolare domanda. Per cui sarebbe stato un abuso negargli questa possibilità, considerato che stiamo parlando di un protocollo ministeriale contemplato dalla normativa sulle denominazioni a livello comunitario e, per di più, risponde a quanto già definito dal disposto sulla Riqualificazione ampelografica vitivinicola in Italia del 1992”.
Chi sia codesto produttore, il dirigente regionale si guarda bene dal fare il nome. Per questo ‘TerraNostra’ gira la domanda al maggiore produttore di vini di Sicilia, il gruppo consortile Ermes-Cantine Orestiadi di Gibellina che vanta ramificazione in tutta l’isola, nonché è esso stesso il maggiore imbottigliatore e distributore di Prosecco prodotto nella terra d’origine del Veneto e, lupus in fabula, anche di Primitivo di Manduria che proviene da una cantina corrispondente del Salento. Tutto a regola d’arte e nel rispetto delle normative, dunque. Che siano proprio loro ad avere fatto questa richiesta alla Regione Sicilia?
Alla domanda, il direttore generale del gruppo Salvatore Li Petri non ha tentennamento alcuno nell’escludere tale ipotesi: “Assolutamente no. Non solo, ma mi sento di escludere che a oggi sia stata piantata in Sicilia anche una sola barbatella di Primitivo”. E aggiunge: “Qualora domani qualcuno dovesse farlo, ritengo impensabile che costui decida di riportare in etichetta il riferimento al vitigno Primitivo. Lo escludo a priori, innanzitutto per rispetto dei produttori pugliesi, ma anche perché è strategicamente sbagliato farlo: sarebbe un assurdo controsenso che cozza con la buona e corretta gestione aziendale”.
Di tutto ciò si fa garante la stessa ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova che, messa al corrente della querelle, è intervenuta tempestivamente con una nota ufficiale in cui si definiscono i contorni della vicenda. E affermare che “mai consentirò che una bottiglia di vino siciliano Dop o Igp possa chiamarsi Primitivo, esattamente come solo le Dop e le Igp di Sicilia possono utilizzare il nome del vitigno Nero d’Avola. E questo nonostante quel vitigno possa essere coltivato in altre regioni che lo hanno inserito nell’elenco delle varietà raccomandate e autorizzate”.
Ed è ancora la ministra ad auspicare in senso lato “maggiore accortezza” nel valutare problematiche che se mal consigliate rischiano di ingenerare “allarmi ingiustificati e conflitti tra Regioni, soprattutto del Mezzogiorno che, anzi, dovrebbero e potrebbero fare della qualità e della valorizzazione delle loro eccellenze una battaglia comune e una strategia di posizionamento globale”.
Tutto chiaro? In linea di principio sì, come peraltro ci ricorda il brillante finale della commedia shakespeariana che sugli equivoci ci marcia alla grande. Ma siamo in Italia, la nostra bella Italia dove anche quando tutto sembra chiaro, nulla è dato per scontato.