Fiere, i perché dei vuoti a Tempo di Libri – Giacoletto (Aie): la presenza di Appendino riapre il dialogo con Torino

Il libro è cultura. Ma non è scontato che una montagna di libri renda tutti colti. E se c’è chi ritiene sufficiente esporre 25mila titoli per lanciare una nuova fiera, beh, costui ha da fare una profonda riflessione.
Come quella che si preparano a fare gli organizzatori della fiera “Tempo di Libri”, la cui prima edizione è andata in scena a Milano dal 19 al 23 aprile. Anticipando di un mese il tradizionale appuntamento del “Salone del Libro” di Torino.
mirka-giacoletto-papasAnnunciata poco meno di un anno fa, con grande disappunto degli organizzatori dell’evento torinese e non pochi musi storti a livello politico, “Tempo di Libri” ha lasciato parecchio amaro in bocca a quanti hanno avuto modo di visitarla. Nonostante la partecipazione del ministro della Cultura Dario Franceschini, l’impegno profuso dai proponenti l’iniziativa – la Fabbrica del Libro, società condivisa da Fiera Milano (51%) e Associazione italiana editori (49) – e dai 500 editori espositori che non si sono certo risparmiati nell’invitare autori e ospiti vari. Ed esporre 25mila titoli, stimati, tra testi freschi di inchiostro, riedizioni e copie a sconto.
Insomma, una montagna di romanzi, saggi, guide di ogni genere, pubblicazioni economiche, d’arte, fumetti, racconti per bambini, e-book, video e molto altro ancora. Tutto per catturare l’attenzione di 79.929 visitatori e partecipanti al Fuorisalone, tanti quanti ne ha contati l’organizzazione dell’evento.
Tutto bene, quindi? Non proprio. Perché se da un lato il numero preciso all’unità è assai vicino al tetto di 80mila, considerato strategico per la riuscita dell’iniziativa, dall’altro bisognerà pur spiegare il perché del vuoto tra i corridoi e negli stand durante i primi tre giorni di fiera. Tanto più che a chiederselo sono stati esponenti di primo piano delle istituzioni, come il Sindaco di Milano Beppe Sala. Il quale, ancorché apprezzare l’iniziativa, non ha nascosto talune criticità. Una per tutte la scelta di data e tempistica della manifestazione stessa.
Come a dire che qualcosa non è filata per il verso giusto. Ma è solo una questione di data infelice, o c’è dell’altro?
L’ho chiesto a una persona che il mondo dell’editoria lo conosce molto bene: a Mirka Daniela Giacoletto Papas (foto), vice presidente dell’Associazione italiana editori, nonché presidente della casa Editrice Egea dell’Università Bocconi. E come tale sostenitrice e diretta interessata sulle sorti future di “Tempo di Libri”.
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Però riconoscerà che l’esito di questa prima edizione ha tutto per essere considerato al pari del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto.
Certamente si poteva fare meglio. E sicuramente lo faremo nel preparare l’edizione 2018, evitando di ripetere gli errori che solitamente si fanno ogni qualvolta si intraprende una nuova iniziativa.
Vale a dire?
La fiera si è appena conclusa e un esame dettagliato della situazione lo faremo nelle sedi opportune dell’Aie, oltre che confrontandoci con i nostri partner di Fiera Milano.
Che sia mancata la gente è però stato evidente da subito.
Premesso che 80mila persone e oltre un milione di visualizzazioni sul web non sono pochi, non voglio comunque nascondere che qualche problema ci sia stato. Mi riferisco al poco tempo a disposizione nella preparazione. Per cui ci sono stati vuoti organizzativi e carenze nella comunicazione che, diversamente, avrebbero dovuto permettere un maggiore coinvolgimento della città.
Il Sindaco di Milano ha messo in discussione la data. Ma può essere che abbia inciso la scelta del sito fieristico di Rho e non quello di CityMilano?
Escludo che il sito abbia fatto da filtro sulla presenza di visitatori. Anzi, ritengo che Rho-Milano Fiera sia ben collegato al centro città e offra servizi e spazi adeguati allo scopo. Quanto alla data faremo le dovuti considerazioni in Aie. Personalmente ritengo che una fiera del libro fatta a cavallo tra due ponti festivi avrebbe dovuto favorire gli arrivi da fuori Milano. Così non è stato, e ritengo che ciò sia dipeso da una carente comunicazione. Lo prova il mancato coinvolgimento di scuole e università, come pure l’assenza di famiglie. Ed è mancato anche il referente internazionale.
C’è però stata una presenza che forse nessuno si aspettava: l’ultimo giorno è venuta il Sindaco Appendino. Come interpreta questa presenza?
Nel migliore dei modi. Con la sua presenza a “Tempo di Libri”, il Sindaco di Torino non solo ha confermato di essere persona intelligente, ma ha fatto di più. Si è messa al di sopra delle polemiche e ha lanciato un messaggio molto importante per tutti. Ha fatto capire che con il dialogo si possono abbattere muri e sviluppare sinergie comuni tra Torino e Milano. La vera sfida credo sia proprio questa.

  • Francesco Introzzi |

    Gentile Signor Introzzi, Certo che vi è interdipendenza tra mercato e questione linguistica, e il confronto può essere ulteriormente allargato ad altre aree sociali, economiche e politiche. In questo senso lei ha perfettamente ragione e tanta materia da mettere a disposizione per utili confronti e dibattiti.
    Quanto alla dotta corrispondenza che ha scritto e inviato al suo illustre destinatario, le auguro che il ministro per lo Sviluppo economico Calenda abbia tempo e voglia di leggerla. E magari rispondere, anche attraverso il blog “TerraNostra”.
    Distinti saluti,
    Nicola Dante Basile

    Caro sig. Basile, non credo che l’economia del mercato librario sia indipendente dalla questione linguistica europea. La nostra decrescita civile – quotidianamente sperimentabile – è una diretta conseguenza del nostro provincialismo culturale e, in questa prospettiva, non possiamo ignorare l’arretratezza e il disorientamento culturale della popolazione italiana rispetto all’ujso che noi abbiamo fatto dal dopo-guerra delle varie opzioni linguistiche presenti sul globo.
    La cultura italiana è ancora ampiamente pre-illuministica e la nostra voce in capitolo in termini di gestione culturale – e politico-finanziaria – del pianeta è a dir poco marginale e inconsistente. L’Europa intera è una “terra di sistematica regressione” e, anche la questiomne linguistica pesa sulla nostra arretratezza culturale: e quindi “anche” libro-continutistica. La Francia non sta molto meglio di noi. A livello popolare l’illuminismo deve ancora recuperare secoli di arretratezza!
    Spostando decisamente il campo di osservazione, rispetto ai problemi da lei affrontati nello specifico, ma non nella sua esperienza intellettuale le trascrivo un mio appunto sulle questioni europee al momento aperte inoltrato al ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda.
    Mi scuso per il mio reiterato “fuori tema”.
    Francesco Introzzi
    __ __ __
    Francesco Introzzi
    7, Lungo Stura 24 Maggio
    12100 Cuneo CN
    Tel. 0171.69 52 85
    f.introzzi @ alice.it

    Cuneo, venerdì 28 aprile 2017

    Destinatario:
    S.E. Carlo Calenda
    Ministro per lo Sviluppo economico
    del Governo italiano
    Roma

    Sviluppo nazionale italiano e costruzione federale euro-mediterranea

    Caro ministro, ho seguito con attenzione e vivo interesse il suo vivace e puntuale confronto, di confortante livello culturale e civile con la dott.ssa Lilli Gruber, l’editorialista del Corsera Beppe Severgnini e il commentatore politico Paolo Mieli.
    Proprio grazie alla mia rispettabile età di 87enne mi sono sentito in obbligo di non farle mancare qualche mia maturata – e forse non del tutto scontata – convinzione.
    Premetto che sono in debito culturale precipuo verso due personaggi irrinunciabili della nostra storia, precisamente Carlo Cattaneo e Giovanni Demaria.
    A Carlo Cattaneo ritengo di attribuire un decisivo carattere civile del suo federalismo in quanto incardinato sul valore di una libertà condivisa e comunitariamente associativa.
    A Giovanni Demaria credo debba essere ricondotta una concezione della logica economica, sensibile alle esigenze di una società civile evoluta e, nello stesso tempo, capace di far tesoro delle potenzialità che l’essere umano possiede in se stesso e che è in grado di esprimere al meglio di se stesso quando la società – una società civile – si mette in grado di curarlo nella sua crescita e di sostenerlo nel suo libero, responsabile, manifestarsi.

    Se i valori fondanti della Costituzione repubblicana del 1948 sono sacrosanti e irrinunciabili, tuttavia i “limiti” imposti dai partiti dell’arco costituzionale alla “sovranità democratica” – con il progressivo consolidarsi della cultura e della maturità civile della popolazione, nel corso della seconda metà del XX secolo, avrebbero dovuto essere allentati e definitivamente rimossi. Ma la nostra “partitocrazia” si è rivelata più “regressiva” che “antifascista”.
    È da decenni che il secondo periodo del secondo comma del primo articolo della Costituzione – quello che continua a imporre degli anti-storici limiti alla sovranità popolare – doveva essere superato e definitivamente cancellato! Invece i partiti se ne guardano bene! Quando Berlinguer aveva, a suo tempo, chiesto agli operai i sacrifici che il momento richiedeva, l’intero paese aveva risposto col massimo del senso di responsabilità. Quello avrebbe dovuto essere il momento per la revisione della Costituzione. Ancora oggi il problema è irrisolto e Matteo Renzi ha proposto agli italiano una riforma costituzionale “regressista” che andava in senso opposto alle aspettative del paese. E poi si lamenta della sconfitta referendaria!

    Veniamo adesso alla questione del federalismo. Il federalismo portato avanti dai partiti è quello a suo tempo propugnato dal Movimento Federalista Europeo (di Altiero Spinelli, Sergio Pistone, Mario Albertini, Lucio Levi). Si tratta di un federalismo lontano dalle comunità locali, centralistico e militarista. Il loro modello è rappresentato dagli Stati Uniti d’America, presidenzialista, sostanzialmente anti-localista.

    Teniamo presente che esiste una radicale differenziazione anche tra il federalismo elvetico, che non per niente mantiene la denominazione storica di “Confederazione elvetica” e il federalismo della “Bundesrepublik Deutschland”, una struttura federale che esclude per principio il referendum deliberativo, quello tipico invece del federalismo elvetico. Non per niente la costituzione tedesca risente del fatto che la stesura originale della costituzione tedesca è storicamente avvenuta nel dopoguerra sotto l’egida degli alleati (franco-anglo-americani).
    La Confederazione elvetica mantiene una sovranità di principio dei Cantoni federati e sono quindi le comunità cantonali a decidere – nell’ambito di un vero e proprio “patto federale” – quali siano le competenze da attribuire – in funzione delle decisioni politiche delle popolazioni cantonali federate – agli organi federali. Gli organi centrali – federali – elvetici sono quindi subordinati ad una politica federale che deve risultare dal concorso prioritario dell’insieme “federale” delle repubbliche locali (cantonali).
    La preoccupazione prioritaria del federalismo risorgimentale di Carlo Cattaneo e compagni è esattamente quello di garantire il controllo della libertà delle comunità locali e delle persone fisiche dei rispettivi cittadini. La sovrapposizione di un superiore potere federale centrale sarebbe stato visto come prevaricazione e abuso rispetto alle esigenze di un autogoverno locale. “Per non perdere la libertà bisogna tenerci le mani sopra.”
    Il presidenzialismo federale – al pari del presidenzialismo unitario – è sentito come un condizionamento patologico di un’autentica struttura democratica federale.

    Per avviare l’Italia sulla strada del federalismo europeo occorre in conclusione superare l’idea positiva – ma puramente pacifista – del “federalismo spinelliano” e convertire la Repubblica italiana in una autentica “Repubblica federale italiana” ispirata al modello cattaneano adatta a portare l’Europa verso l’organizzazione di una “Amministrazione Federale Europea” funzionale a un “federalismo democratico strumento sistemico della libertà: della libertà civile delle persone fisiche e dell’auto-determinazione, auto-organizzazione e auto-governo dell’insieme (tendenzialmente planetario) delle comunità locali.

    Un corollario non secondario al discorso europeo è rappresentato dall’esigenza, che è un atto dovuto, di estendere l’inclusione della Tunisia nel progetto di costituzione del nucleo federale dell’Unione europea. La differente qualificazione politica, culturale e civile della Tunisia merita il nostro rispetto e tutta la solidarietà, non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa e dobbiamo rivolgerci alla Turchia come area africana di organizzazione insostituibile per arrivare ad un sistema di regolamentazione pacifica e funzionale dei flussi immigratori che l’irresponsabilità degli ex-paesi coloniali – Italia compresa – ha alimentato e reso insostenibilmente tragici.

    Ringrazio dell’attenzione.
    Cordiali saluti.
    Francesco Introzzi

  • Nicola Dante Basile |

    Gentilissimo lettore, il problema è che la questione che lei pone è del tutto fuori luogo con il tema del mio articolo.

  • Francesco Introzzi |

    Cuneo, 29 aprile 2017
    Deliberatamente cambio i termini della discussione per eventualmente obbligarvi a riprenderla in un ambito di riferimento più adeguato alla dinamica del quadro europeo, politico e linguistico.
    “Il Sole 24 Ore” nel dopoguerra aveva tentato – senza riuscire nell’imp’resa – di proporre alla popolazione imprenditorial-professionale dei suoi lettori l’edizione del giornale in lingua inglese. A livello accademico abbiamo assistito all’effettiva integrazione linguistica delle università italiane con quelle degli altri paesi utilizzando come “lingua franca” l’anglo-americano standard. Non si può dire che lo studio scolastico dell’inglese abbia prodotto un’utilizzo familiare di questa lingua.
    Mi chiedo se non sia il caso di studiare un’integrazione linguistica popolare trans-frontaliera che utilizzi il francese non sia suscettibile di determinati risultati popolari in termini di consolidamento culturale, economico e politico.
    Se uscissimo da una concezione provinciale dell’integrazione europea scopriremmo che l’adozione del francese come “lingua franca” – come del resto lo era già stata ai tempi di Carlo Cattaneo fino alla prima guerra mondiale – potrebbe consentirci una migliore penetrazione nell’insieme dei mercati europei – Germania compresa – per i prodotti italiani piuttosto che rendere noi – come sta già avvenendo – prede dell’intraprendenza imprenditoriale francese (e non solo).
    Pensateci, poi, se credete, mi dite qualcosa anche a proposito di mercato editoriale.
    Francesco Introzzi

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