Riflessione congiunturale o inizio di una fase negativa di tipo strutturale per l’import di vino negli Usa?
È quanto sembra logico chiedersi analizzando i dati, seppure molto parziali, che evidenziano un significativo raffreddamento dei flussi all’import di quello che è il primo mercato di consumo di vino al mondo. Se lo chiedono i tanti esportatori italiani e non, che degli Stati Uniti d’America sono tradizionali fornitori. E se lo chiedono i vignaioli che da ultimo si sono affacciati con nuove proposte sul dinamico mercato yankee, dove cercano di cogliere la palla al balzo con iniziative promozionali che sfruttano le misure collettive messe loro a disposizione dai fondi comunitari che, però, secondo alcune fonti, non sembrano qualificate a dare valore all’immagine del vino made in Italy. Ma andiamo con ordine.
Il raffreddamento dell’import Usa non è una novità dell’ultima ora. Si è manifestato in modo sporadico già nei primi mesi del 2013, con oscillazioni statistiche apparentemente logiche. Solo che allora le spinte alla crescita erano prevalenti, sicché pochi osservatori ci hanno prestato la dovuta attenzione.
Ora, invece, le stonature stanno disturbando la dolce musica. Disturbo che se non ha ancora raggiunto un livello preoccupante, per certo non può più passare inosservato. Soprattutto a casa nostra, che è e resta il principale paese vinicolo esportatore del mondo e il primo fornitore Usa.
Accade, infatti, che da inizio anno questo trend flessivo (che non è solo americano, ma si sta estendendo anche in altri paesi acquirenti) ha assunto nella sua totalità una cadenza costante, al punto da cumulare nel primo quadrimestre 2014 un taglio dei volumi (voce assai più significativa nella determinazione degli indirizzi) che sfiora il 7% per cento.
Per la precisione si tratto di un -6,8%, secondo quanto informa l’Italian wine & food institute di New York (Iwfi), con valori assoluti di import Usa pari a 3,1 milioni di ettolitri rispetto a 3,3 milioni del quadrimestre 2013. Di segno opposto la voce dei valori, cresciuta nel frattempo dell’1,3% a 1,29 miliardi di $, rispetto a 1,27 miliardi del corrispondente periodo di un anno fa.
A perdere aderenza sono un po’ tutti i player esportatori. A cominciare per l’appunto dall’Italia che, nei quattro mesi in esame, arretra del -4,4% a 792mila ettolitri (rispetto a 826,5 mila), per un valore che, al contrario, avanza del 5,4% a 437 milioni di $ (rispetto a 414,7 milioni).
Si tratta di dati che nella loro cruda essenza confermano l’Italia al top della graduatoria dei paesi fornitori di vino, con una incidenza del 25% in quantità e il 33,8% in valore delle importazioni vinicole statunitensi.
Ben diversa e più problematica la situazione dei due paesi maggiori competitori e follower dell’Italia. Vale a dire l’Australia e il Cile che, pur vendendo vino a un prezzo medio decisamente inferiore a quello italiano, nel quadrimestre hanno, rispettivamente, esportato 581mila ettolitri (-16,8%) per 138 milioni di $ (-14,8) e 556mila ettolitri (-14,5%) per 91 milioni di $ (-20).
Insomma c’è materia di osservazione per tutti. Per l’Italia di sicuro, giacché come osserva il presidente di Iwfi Lucio Caputo, questo “incremento dei valori assume maggior rilevanza se confrontato con la contemporanea diminuzione dei volumi, il che rischia di rendere problematica la presenza del prodotto italiano sul mercato americano>.
Il presidente dell’Iwfi però ha un altro campanello d’allarme da esternare, ovvero la carenza di azioni promozionali. <Sono anni – dice Caputo – che sul mercato Usa manca una valida azione unitaria dell’Italia per promuovere la produzione nazionale nel suo complesso>. In particolare <mancano iniziative finalizzate a incentivare la domanda e consolidare il prestigio dei vini italiani su questo grande mercato>. Al contrario, <si assiste a iniziative episodiche promosse da enti e organizzazioni scollegati tra loro che, nei fatti, si rivelano inutili quando non dannose>.
Un’accusa precisa che “TerraNostra” raccoglie e gira, per una eventuale risposta, a chi di dovere.