di Giulia Maria Basile
Migrazione e teatro. Due fenomeni sempiterni che non cessano di scuotere esistenze e coscienze, si sono incontrati per raccontarsi attraverso undici storie diverse interpretate da diciotto attori in una maratona all’insegna dell’arte dello spettacolo. È accaduto alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dal 23 al 25 settembre, in occasione della performance conclusiva del Progetto internazionale per il 2016.
La scuola diretta da Giampiero Solari, sostenitore di un teatro che vuole raccontare l’attualità, ha accolto in ognuna delle sue sale una rappresentazione differente e il pubblico itinerante è diventato per una sera migrante in prima persona. Questo è stato “Bussole Rotte”, uno spettacolo nato all’interno del progetto “Terre Promesse” che ha unito registi, drammaturghi e attori provenienti da Italia, Germania, Serbia e Inghilterra, a dispetto della Brexit e di tutti i divisionismi.
Per lo spettatore è una sorta di viaggio che si snoda su due percorsi: munito di un libretto-passaporto viene infatti condotto da una stanza all’altra diventando testimone oculare dei micro drammi rappresentati, coordinati da Michele De Vita Conti e con scenografie e costumi degli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Brera.
Si parte da un sentimento forte: il dolore del migrante che deve lasciare la propria terra, abbandonare la propria casa e stravolgere le proprie abitudini. In Home (testo di Lydia Thomson, regia di Ana Kostantinovic) protagonisti sono una coppia. Essi si tormentano con domande e angosce di chi sa cosa lascia alle spalle, ma non cosa troverà poi. C’è un’odissea davanti a loro che percorrono con paure e inquietudini fino a giungere nella Terra Promessa dove costruiranno il loro futuro e cresceranno i propri figli.
Dall’altra parte (testo di Carla Grauls, regia di Domenico Onorato) è ambientato in un futuro in cui i campi di accoglienza temporanea per rifugiati sono diventati permanenti, e in cui vengono effettuate visite guidate per il pubblico che può osservare i migranti alle prese con la propria tragica quotidianità. Ma a un tratto diventiamo spettatori di uno scontro tra una guida e un turista che si dice bloccato per errore all’interno del campo. Parte così un rifiuto delle proprie origini, una lotta per affermare una presunta superiorità basata sulle differenze che distinguono l’uno dall’altro, mentre alla fine tutti vogliono fuggire verso la stessa libertà.
Ma che libertà è quella proposta da Salta il confine (testo di Rodolfo Ciulla, regia di Antonio Pinnetti), dove le speranze di un immigrato diventano strumento per un gioco televisivo perverso nella sua banalità? Libertà che si costruisce nell’umiliare la disperazione di un uomo disposto a tutto pur di approdare in un nuovo mondo, fatto di vallette e presentatori senza scrupoli che non imparano cosa sia il dolore e l’umanità neanche quando stanno per soccombere.
E se sarebbero da nominare tutti gli undici micro drammi, con i loro autori, i loro registi e i loro interpreti uno più talentuoso dell’altro, ce ne sono due in particolare che hanno la forza propositiva di vedere la luce del futuro.
I bei tempi (testo di Aureliano Delisi, regia di Ana Kostantinovic), uno sprazzo esilarante quanto di disarmante verità sulla nostra realtà condotto su tre livelli diversi: quello familiare in cui si snoda il classico scontro tra padre-figlia-fidanzato della figlia, quello generazionale in cui si confrontano visioni inevitabilmente differenti del mondo e delle relazioni, e quello linguistico tra Tempi e Modi verbali che mette in contatto il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. Agli stereotipi che incarnano le figure del nonno-Passato Remoto, del padre-Imperfetto, della figlia-Presente e del fidanzato-Futuro Prossimo, va ad aggiungersi una riflessione sulle nostre percezioni del nuovo, del diverso, di questo Futuro Prossimo che è appunto l’immigrato tra noi, che temiamo ci porti via ciò che consideriamo nostro ma che è già un presente in via di cambiamento.
E se il gioco della lingua e della grammatica italiana è geniale per portarci a riflettere sulle nostre stesse vite, altrettanto lo è il trucco narrativo di Aspettando il futuro (testo di Valeria Patota, regia di Jovana Tomic, dramaturg Katharina Forster). Qui una futura madre e suo figlio in grembo comunicano, discutono, lottano a dispetto dei luoghi comuni che non tengono conto della solitudine di una donna che aspetta una chiamata dal suo uomo, partito per cercare un futuro migliore per la propria famiglia, ma di cui non si hanno più notizie.
Il bambino vuole nascere, la madre vive nella paura di non potercela fare e si assilla di domande a cui l’incertezza del presente non può rispondere, ma non c’è tempo per fuggire ancora dalla realtà: il bambino nasce, bisogna prendere coraggio e partire verso una nuova terra. Una nuova Terra Promessa.