In agricoltura la fretta non si addice. I processi di produzione richiedono tempo e l’anno non é fatto di mesi, ma di stagioni. Che sono quattro: insufficiente a rendere le piante (arboree) subito produttive. Ce ne vogliono di più, com’è per la viticoltura che necessita di alcuni anni prima di dare buoni frutti per fare un grande vino. Questa è la regola che impone la natura.
Nell’azienda di Còlpetrone di Gualdo Cattaneo nel cuore dell’Umbria verde, “i primi investimenti in vigna risalgono a fine anni ‘80 del secolo scorso, e i risultati non sono mancati”, racconta Marco Castignani, responsabile dell’azienda, dove è quasi nato. La scelta cadde su alcuni vitigni autoctoni, tra i quali il Sagrantino, introdotto nella regione anticamente dai monaci francescani, ma poi dimenticato. Fino a quando negli anni ‘50 del secolo scorso alcuni vignaioli aderenti alla Cantina sociale di Foligno ripresero a coltivarlo. Senza tanta fortuna, a causa di varie difficoltà nel lavorare quelle uve.
Il Sagrantino, spiega Castignani, “é ricco di polifenoli come nessun’altra uva al mondo. Ha bisogno di tanta acqua, sole e parecchia cura prima e dopo la vendemmia. Se ben lavorato, però, ha il pregio di dare un vino importante e longevo”. La svolta è arrivata anni dopo, quando vignaioli come Caprai, Ruggeri, Lungarotti, Terre della Custodia e diversi altri hanno fatto selezione in vigna e adottato tecnologie innovative in cantina. L’esito questa volta ha premiato, tanto da incentivare altri investimenti anche da parte di grandi nomi dell’enologia nazionale, che hanno investito direttamente a Montefalco.
Còlpetrone non è stata a guardare. Sessanta ettari di vigneti specializzati e 150mila bottiglie di Sagrantino, la collocano al vertice dei maggiori produttori della Docg. Non solo quantità, ma anche qualità. Poiché un primato ne favorisce altri, ecco che l’azienda satellite di Tenute del Cerro (gruppo Unipol) “è stata l’unica che con il Sagrantino ha conquistato per dieci anni di fila i ‘tre bicchieri’ del Gambero Rosso”, dice con comprensibile soddisfazione Castignani. Peraltro trepidante per la vendemmia alle porte, che sconta una stagione calda e scarsa di pioggia.
Un problema che a qualche decina di chilometri di distanza, nell’agro di Montepulciano, in Toscana, poteva essere risolto attingendo acqua dall’invaso artificiale di Vagliano. Invece non è stato possibile, a causa della mancata realizzazione delle condotte idriche periferiche, necessarie per portare acqua nella campagna assetata. Una situazione che il direttore generale di Tenute del Cerro, Antonio Donato, definisce “assurda, incomprensibile”. Nonostante tutto, egli non si perde d’animo. Confida che i lavori alla condotta vengano ripresi quanto prima, e intanto coltiva una visione ottimistica sullo stato di salute dei vigneti. E dell’uva prossima all’invaiatura.
Un ottimismo che si avverte subito visitando La Poderina di Montalcino, prospiciente l’Abbazia di Sant’Antimo (352 d.C.), dove la sacralità del luogo scuote perfino i miscredenti. Nell’azienda ilcinese – una quarantina di ettari di vigneti specializzati – tutto è pronto per i lavori di sterramento e realizzazione della nuova cantina. “È questione di mesi e sarà tutta interrata”, dice Roberto Paglierini, da due anni responsabile della tenuta e un passato a fare vino in Palestina e Israele.
“Ora però – aggiunge – c’è una precedenza da rispettare: queste sono settimane decisive per la vigna e per la buona riuscita del vino”. Quindi l’attenzione è tutta rivolta al presente, con la vendemmia “prevista in anticipo di una decina di giorni rispetto a un anno fa”.
L’esperto agronomo, osserva le vigne che si perdono oltre la collina di Castelnuovo dell’Abate e assicura che le piante di problemi vegetativi non ne hanno. E lo spiega rispondendo a una sua stessa domanda: “Sente la frescura che aleggia nella valle?, Beh è il pregio di questo particolare angolo di territorio che beneficia del riciclo della brezza proveniente dalla costa, abbastanza prossima in linea d’aria. Per le vigne è un generoso toccasana che apporta ai nostri vini eleganza, stoffa e una buona dose di acidità. Esattamente ciò che chiede oggi il consumatore più preparato”.
Di frescura ce n’è quanta se ne vuole nei pressi di Cecina, terra di soffioni boraciferi ed energia pulita di origine geotermica, dove ha sede Villetta di Monterufoli: oltre mille ettari di boschi, una volta dominio del conte Ugolino della Gherardesca, poi terminale ferroviario per il carico di carbone estratto dalle viscere della terra. Oggi, sempre boschi, orticoltura, una discreta quantità di vigneti e agriturismo di rango immerso nel silenzio di un ambiente che più naturale non si può, dove chiunque arrivi può anche dimenticare il cellulare in camera. Tanto non c’è linea.
A Monterufoli comunque gli ospiti non hanno tempo di annoiarsi e si scopre la meraviglia di un bene sempre più prezioso, il silenzio. O andare in Jeep con il responsabile della tenuta, Gabriele Macelloni, per un tour naturalistico nella selvaggia vegetazione circostante, dove non è raro fare incontri ravvicinati con esemplari faunistici per l’urbano rari a vedersi. Bestie per lo più innocue, sempre che si eviti di disturbare i cinghiali con cinghialotti al seguito, rigorosamente in fila indiana. Ai quali è saggio dare sempre la precedenza.
Macelloni, che a Monterufoli lavora da 21 anni, ha vissuto in prima persona il passaggio da azienda zootecnica, con centinaia di capi da carne, a vitivinicola. “Era il 1999 – racconta – quando abbiamo cominciato a piantare vigne, utilizzando i contributi stanziati dall’Unione europea: 7 ettari tra Sangiovese, Cabernet e Petit Verdot. Qualche anno dopo abbiamo sperimentato il Vermentino e, debbo ammettere, non sempre i risultati sono stati quelli che avremmo voluto. Tuttavia non ci siamo arresi, e abbiamo fatto bene”.
Il salto di qualità è infatti recente. Coincide con il passaggio di mano della proprietà e con la consulenza dell’enologo Riccardo Cotarella, propugnatore di modelli produttivi e selezioni clonali scientificamente innovativi.
Ecco allora l’ampliamento delle superfici vitate: 16 ettari disseminati nei luoghi più assolati della proprietà, opportunamente recintati in profondità, al fine di impedire danni da parte di roditori e cinghiali. Ecco la decisione di aprire alla produzione di vini bianchi, in specie il Vermentino. Ecco la scelta di produrre biologico, partendo proprio da Monterufoli, dove tutto è di per sé naturalmente bio.
Tutto questo è Tenute del Cerro, network di 4.300 ettari nel cuore dell’Italia, con attività nell’agriturismo, quindi produzioni di cereali, ortofrutta, legnami non pregiati. E poi la risorsa più importante: il vino fatto di grandi denominazioni e marchi relativamente noti in Italia, in quanto il 70% di 1,6 milioni di bottiglie prodotte è destinato all’export. Ragione che ha stimolato la proprietà a progettare investimenti in parte fatti e altri da fare in campagna, in cantina, in prodotti e sulla rete vendita.
Interventi che in un lustro hanno permesso di creare le basi per il rilancio di una realtà agricola che rischiava l’emarginazione. Se non è successo il merito va a una proprietà che, pur occupandosi di assicurazioni e finanza, ha dimostrato di tenere molto all’agricoltura. E stimolato l’impegno dei 50 e passa collaboratori.
E pensare che quando nel 2012 Fondiaria-Sai passò sotto l’ala di Unipol, non so l’a.d. Carlo Cimbri (nella foto a sx con il presidente Stefanini), ma in tanti a Bologna non sapevano ancora di essere diventati in un solo colpo latifondisti. Avendo pure mancato per una frazione temporale di mettere le mani su Cascina Veneria, che non è una casetta qualsiasi della piana vercellese. È un’azienda agricola con 750 ettari di risaie, tra le maggiori del settore in Europa, nonché tenuta di campagna della famiglia Agnelli, negli anni in cui i signori dell’auto vestivano alla marinara.
Si narra che quando lo seppe il presidente del gruppo Pierluigi Stefanini, dispiaciuto e a mezza bocca esclamò: “Che peccato non averla presa noi!”
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Le inchieste di “TerraNostra”: Unipol-Tenute del Cerro: 2/fine (il precedente articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2017)
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