Tutto in poco più di due lustri. Un tempo che riferito a questioni che hanno a che fare con la pratica agricola e vitivinicola, corrisponde a un battere di ciglia.
Dieci anni. Tanto è bastato alla filiera vitivinicola abruzzese, in questo inizio di millennio, per rivoluzionare se stessa, colmare il ritardo nell’uso di tecniche colturali e mercantili ampiamente accettate altrove, e vedere due suoi antichi #vini rilanciati di recente – Pecorino e Passerina – scalare fino al vertice la classifica nazionale dei prodotti più richiesti.
Una rivoluzione che ha coinvolto una parte significativa della cifra viticola regionale (33mila gli ettari), stimolato il più delle 200 cantine private e, va da sé, anche il sistema cooperativo, che da solo controlla i tre-quarti dell’offerta vinicola territoriale, pari a 2,5 milioni gli ettolitri nel 2015, di cui quasi metà a denominazione d’origine #Dop e #Igp.
Traguardi importanti, dunque, che i vignaioli teatini, pescaresi, aquilani e teramani, da sempre portatori esclusivi di Montepulciano e Trebbiano, hanno potuto finora godere in modo discontinuo e a macchia di leopardo.
Ora, però, la musica ha preso un tono diverso. Grazie a un diverso approccio dei protagonisti che si sono resi artefici di proposte innovative e opportunità significative colte sui mercati esteri. Con l’export che ha preso a marciare a doppia cifra, quale effetto di una salvifica e ben riuscita combinazione di gusto, qualità e prezzi medi oltremodo competitivi, sotto i 3,00 euro a bottiglia.
Tale è l’analisi che si ricava da un focus sul settore promosso dalla Camera di commercio di Chieti, presentato alla mostra Ama dal presidente Roberto Di Vincenzo (foto accanto) che parla di ambienti ecosostenibili, di territori che risentono della benefica climatologia del mare e delle montagne, di vitigni autoctoni riportati a nuova luce, di applicazione del freddo di ultima generazione, di imprenditori che hanno rischiato e ora raccolgono i frutti dell’innovazione tecnologica sperimentata e applicata in campo aperto e in cantina.
Enologia 2.0. Chissà se la rivoluzione la si può definire così. Certo è che i fattori applicati dai vignaioli abruzzesi sono serviti a riposizionare il Montepulciano (19mila ettari e un milione di hl) e il Trebbiano (10mila ettari e 220mila hl), che restano lo zoccolo duro della viticoltura regionale. Ma hanno anche dato spazio alla ricerca, da cui la formulazione di un nuovo ventaglio di Doc: Controguerra, Tullum, Ortona e Villamagna … . Compresa la denominazione Abruzzo che, da ultima, ha congiunto in modo compiuto i due estremi di uno stesso filo.
Il tutto a formare una sorta di cerchio magico, all’interno del quale trovano posto i vini tipici della tradizione e, sicuro, non mancano le già citate proposte più gettonate del momento dai consumatori italiani; come pure le ottime performance conseguite dalle esportazioni, che nel 2015 hanno totalizzato 138 milioni di euro: di fatto il doppio di quanto incassato dieci anni fa.
Export brillante. Dove i nomi dei protagonisti richiamano realtà consortili (Citra e Tollo in primis, che riescono a imbastire spedizioni tali da sfiorare il 60% della capacità di cantina). Ma anche aziende private che, pur avendo spazi operativi più contenuti rispetto alla cooperazione, solitamente hanno cromosomi più liberal e propensi a fare ricerca di nuovi prodotto, studiare strategie commerciali e di marketing comunque pertinenti a un mercato che si evolve. E mai ti preavvisa che sta cambiando.
Questo hanno fatto aziende dal nome già ben consolidato – Illuminati, Masciarelli, Zaccagnini … -, e fanno altre di più recente formazione, com’è nel caso di Agriverde, Feduccio, Marramiero … . Per finire con Cantine Farnese di Ortona, network enologico fondato nel ’94 da manager e produttori locali, passato poi sotto il controllo (al 60%) del gruppo di private equity “21 Investimenti” e, certo, tra le più aggressive nel concepire e attuare dinamiche mercantili d’avanguardia.
Certo, l’impresa gode di una struttura agile sotto il profilo patrimoniale, contando su un numero limitato di ettari in proprietà, rispetto alla totalità del vino imbottigliato e venduto: 16 milioni di bottiglie e fatturato a cavallo di 50 milioni di euro nel 2015.
Tuttavia l’accortezza più singolare sta nell’avere creato una rete di marchi di vini provenienti da più regioni del Mezzogiorno. Che, veicolati sotto un unico cappello in ottanta Paesi del mondo, fa si che la voce export incida in bilancio per il 96 per cento. Sicché quando il cronista cerca di sapere se per Farnese andare quasi in esclusiva all’estero è una scelta aziendale o una sorta di condizionamento per opportunità mancate sul mercato domestico, la risposta del manager, Valentino Sciotti, non lascia dubbi.
<Il problema – dice Sciotti – è che i buyer della moderna distribuzione italiana si ostinano a non comprendere quanta bontà e valore c’è nei vini del Sud Italia>. Tanto basta a fare rimbombare nelle orecchie una cantilena famosa: “Meditate gente, meditate”.
Allora, però, il mitico Arbore si riferiva a … una bionda. Di sicuro bella e bona.