Api a rischio sopravvivenza. Succede nel mondo, accade in Italia. E i motivi sono gli stessi un po’ dovunque. Vale a dire, l’uso in agricoltura di pesticidi e insetticidi a go-go, con relativo inquinamento ambientale e morie di api al seguito.
Per questo c’è poco da stare allegri per lo stato di salute dell’unico insetto “addomesticato” dall’uomo. Quello stesso individuo ancorché ingordo per il miele che l’ape gli procura, dimostra cecità, chiusura, incultura per la salvaguardia dell’ecosistema, la tutela della biodiversità vegetale e rispetto dell’ambiente. Un comportamento che mortifica e rende letale l’esistenza di esseri viventi delicati come le api.
E sì, perché, è sufficiente che queste creature abbiano un solo contatto con fiori e piante di per sè contaminate da agenti chimici, magari mixati con altri disinfettanti, che automaticamente il loro ciclo di vita ne risenta, rendendole incapaci di fare il loro mestiere: impollinare.
A dirlo è uno studio elaborato da ricercatori internazionali (Università e CREA di Bologna, Institute of Horticulture di PuÅawy, Polonia, CREAF Universitat Autònoma de Barcelona) pubblicato su Proceedings of the Royal Society, da cui emerge che per un’ape è sufficiente fare un solo pasto da fiore contaminato per inibirne seriamente l’attività di impollinazione. Un problema che non riguarda solo le “api da miele”, ma anche le “api solitarie”, dette così perché non fanno parte di nidiate o società numerose.
“Si tratta di una specie di api non organizzate, per questo particolarmente a rischio”, avverte il coordinatore della ricerca Fabio Sgolastra del Dipartimento di Scienze e tecnologie agroalimenari dell’ateneo bolognese. Che spiega come “la scomparsa anche di una sola di esse comporta automaticamente la fine di un’intera linea di successione”.
Tra gli effetti osservati nella ricerca v’è un doppio fattore di crisi, laddove “da un lato la vita dell’ape (contaminata, ndr) diventa più breve e, dall’altro, si allungano i tempi per l’inizio della deposizione delle uova: un fenomeno – conclude Sgolastra – che riduce la capacità riproduttiva di questi insetti e mette a rischio la sopravvivenza delle popolazioni di osmie negli ambienti agrari”.
A questo punto viene da chiedersi: ma senza il ronzio delle api e del loro miele che vita sarebbe la nostra?
La risposta, senza andare per le lunghe, è avvilente. Anche perché il problema non è tanto la perdita di valore generato dall’impollinazione, che il mercato stima sommariamente a livello globale in una decina di miliardi di euro l’anno. Quanto il fatto che la loro estinzione si ripercuoterebbe negativamente sull’intero ecosistema, mettendo tra l’altro a repentaglio la produzione di buona parte della frutta e della verdura che sono alla base della catena alimentare di ogni essere vivente.
Che il problema sia tremendamente serio lo dicono i dati relativi alla scomparsa continua di attività di molti, tanti alveari. Il centro di ricerca ambientale World Watch Institute di Washington ha di recente stimato che, in questo inizio di millennio, il numero degli apiari nel mondo si è ridotto di un terzo.
Anche l’Unione europea ha preso a cuore la questione, varando una direttiva volta a bandire l’uso di talune sostanze chimiche ritenute particolarmente micidiali per le api. Al momento però non tutti i Paesi membri hanno provveduto a dotarsi dei codici attuativi al loro interno. Lasciando intuire che la moria di api è considerato un non problema, talché anche la produzione di miele è destinata a risentirne pesantemente.
Il fenomeno è in atto e coinvolge massicciamente anche l’Italia, laddove Coldiretti ha censito nella Penisola circa 1,2 milioni di alveari in attività, la cui produzione di miele continua a scemare di anno in anno. Tanto da chiudere il 2017 con 10 milioni di chili: insufficienti a soddisfare una domanda che è quasi doppia. E questo in un paese che in passato era addirittura autosufficiente ed esportatore.
Purtroppo questo scompenso è diventato strutturale e pare destinato ad aggravarsi. Già quest’anno la produzione domestica è stimata in ulteriore e pesante caduta, sicché è inevitabile il ricorso a massicci acquisti all’estero. Come peraltro dimostrano i 9,4 milioni di chili di nettare già importati nel primo quadrimetre 2018, provenienti da paesi dell’Est europeo e dall’estremo oriente. Il problema è che a volte di questo prodotto non v’è certezza sull’origine e sul processo di lavorazione adottato.
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